"Tarots and the North" (dodici scritti abbinati ciascuno ad un Arcano Maggiore di Luis Royo)

"V. Death"

Non un decesso istantaneo. Quella provocata dai Makajodama è una morte sadica, che ferisce soltanto con la sua falce consumata, lasciando al dissanguamento e agli spasmi il resto del lavoro, in un affannoso processo che ricorda lo strazio del saggio centauro Chirone, graffiato per errore da una freccia avvelenata dell'amico Eracle, e condannato dalla propria immortalità a vagare alla ricerca di un metodo per uccidersi e liberarsi così dal folle dolore. Visioni oscure queste, che ben si adattano agli scorci spettrali fotografati dai nuovi pupilli del negromante Nicklas Berg, ospite immancabile di un debutto ibrido, in cui gli opprimenti necrologi dei Morte Macabre si incrociano alle angosce post-rock dell'Imperatore Nero del Canada, arricchite da spunti d'improvvisazione che complicano la fruibilità della proposta, ma contemporaneamente contribuiscono a diluirla, impedendole di soffocare nelle sue stesse dense atmosfere.

"Makajodama", nato due anni orsono da un quartetto svedese assemblatosi grazie all'alleanza tra il chitarrista dei Gösta Berlings Saga e il batterista dei The Carpet Knights, è un figlio d'arte annoiato, che sfoga le sue frustrazioni dipingendo tele sinistre e surreali, tanto geloso della sua adorata solitudine da ricorrere a qualsiasi espediente pur di passare inosservato e continuare a perdersi nei meandri distorti delle più lugubri allucinazioni, magistralmente evocate dai toni torbidi della copertina di Johan Björkegren.

La relativa distanza dagli standard progressivi e la lentezza di assimilazione possono infatti scoraggiare il pubblico odierno e la sua pretesa di risultati immediati e tangibili, rendendo certamente facile sottovalutare una grigia esposizione di quadri raffiguranti campi di battaglia all'indomani di atroci carneficine, setacciati vanamente dalla chitarra di Mathias Danielsson ("Reodor Felgen Blues"), determinata a recuperare sopravvissuti tra pile di cadaveri a cui gli strumenti porgono sentiti rispetti con l'ausilio di flauto e mellotron ("Buddha and the Camel"). Paesi ormai deserti, attraversati dalla chitarra e dal violino di Johan Klint ("Wolof"), fanno invece da sfondo alle aberranti farneticazioni di quest'ultimo ("The Ayurvedic Soap"), mentre la batteria di Mattias Ankarbranth corre irregolarmente tra i ruderi di vecchie magioni, chiedendosi cosa possa aver causato una tale rovina ("Train of Thought").

Nel cuore di scenografie tetre ed astratte, animate dalle conversazioni del sax e del basso ("Vallingby Revisited"), una chitarra tormentata dagli incubi si dimena, cercando disperatamente di svegliarsi ("The Girls at the Marches"), ma il violoncello di Karin Larsdotter e il fagotto, distratti, preferiscono inseguire le conturbanti sagome degli Univers Zéro, scorte aleggiare dietro spessi banchi di nebbia, dai quali risuonano gli occulti mormorii di un sitar in profonda meditazione ("Autumn Suite").

Le opere mostrate in questa galleria racchiudono un'innegabile forza espressiva, rivelata in modo così attento e intelligente da ingannare l'ascoltatore e portarlo ad avvertire una cronica mancanza di mordente che è in realtà soltanto illusoria e non altera l'essenza di un lavoro genuinamente suggestivo, elevato dai propri deliri ad altezze ancora una volta richiamanti il buon Chirone, riuscito a sbarazzarsi della "scomoda" immortalità fisica, dopo averla donata al titano Prometeo, e tramutato da Zeus nella nobile costellazione del Sagittario, pienamente libero di esplorare le insondabili grandezze dell'universo fino alla fine dei tempi.

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