Potrà pur permettersi l'autoreferenzialità il vecchio Mark, dopo la bellezza di trent'anni di carriera, no?

Chi segue il cantautore americano ha imparato a conoscere il suo metodo compositivo; che il tema trattato sia doloroso o meno, Mark é un fiume in piena per quanto riguarda la scrittura e la stesura dei suoi brani.

Egli comincia a prenotare stanze d'albergo a San Francisco. Esse sono i suoi rifugi. La stanza d'albergo, la chitarra acustica e nient'altro.

In recenti interviste ha spiegato la sua volontà per questo disco di registrare il tutto in un clima per lui confortevole, e allo stesso tempo, di non voler prefiggere alcuna regola al suo operato. I testi sono improvvisati, o scritti comunque poco prima di essere catturati dalle registrazioni. Trattano la già citata San Francisco, i suoi abitanti ed in generale la già citata autoreferenzialità (c'è un brano che si chiama The Mark Kozelek Museum).

Dal primo pezzo (This Is My Town) si intuisce ciò; spontaneità ed istantaneità nel raccontare episodi di vita (se piatti o pregni di una qualche emozione sarà l'ascoltatore a deciderlo). Nell'intervista concessa a Phoebe Bridgers (allegata alla recensione) si discute tra le altre cose anche del fatto che ovviamente -tra gli ascoltatori del disco- ci sarà chi vorrà apostrofare i brani come "deliranti" nonostante e ovviamente Mark non sia d'accordo con questa definizione.

Altre canzoni partorite durante gli stessi periodi verranno, a detta dell'autore, pubblicate in seguito sotto il moniker Sun Kill Moon.

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