Quand'ero bambino guardavo la tivù e rimanevo soggiogato dallo strapotere delle immagini pubblicitarie. Sognavo di camminare per il parco in cui rimbalzava la pallina del digestivo, di correre nel granaio col celebre mulino sullo sfondo, al tramonto. Di navigare per gli oceani in tempesta al servizio del celebre Capitano, di compiere imprese mirabolanti sorseggiando un amaro, di volare con le aquile come fece il compianto conterraneo Angelo D'Arrigo, al suono della "Romanza" di Giuseppe Verdi... Ma più di tutto ad affascinarmi erano i detersivi liquidi, i loro colori vivaci e plasticosi, la loro sintetica perfezione. A scuola media studiai un po' di pubblicità, apprendendo che ad una ricerca di mercato, sottoponendo lo stesso detersivo in polvere dentro a confezioni di colore differente, mutava la percezione della sua qualità: il detersivo dentro alla confezione blu era moscio, quello dentro alla gialla troppo aggressivo. Quello invece a strisce gialle e blu; quello si che era un prodotto da acquistare senza perder tempo! Il potere dei colori, e che colori! Blu elettrico, giallo fluorescente e verde evidenziatore, l'arancio del celebre pennarello che scrive su tutto-tutto, il cremisi, il rosa shocking... e lui, il colore della mia ossessione infantile, il colore degli anni ottanta, il fucsia.

Oggi ascolto il primo, omonimo, disco di Martin Rev, il celebre tastierista dei Suicide, datato 1980, alla ricerca di no-wave strumentale, e la ritrovo accompagnata da campane ecclesiali in "Nineteen 86", nella durevole "Temptation" tra tintinnii puntuali e ritmici di triangolo, e negli oscuri bordelli della finale "Asia" e di "Yomo".

"Yomo": mi viene in mente altra pubblicità, ancora questo strumento di mercificazione di massa che diventa oggetto di studi universitari, di dibattiti e convegni, gran gala e premi internazionali, di incessanti ricerche scientifiche, di cultura, e quindi, infine, di nuova arte e nuova ispirazione.

E' l'eterna ruota che gira, mi dico: prima la pubblicità imita la vita, poi la vita finisce per voler imitare la pubblicità. Prima vuole essere arte, poi è l'arte che la possiede. Prima il celebre motociclista allampanato fa il giro del mondo con le sue imprese, quindi i professionisti sfruttano la sua comicità inconsapevole, imponendola quale modo inusuale ed accattivante di proporsi (e dunque di proporre); finisce che la realtà si ribalta, che gli attori imitano il motociclista negli altri spot, e che gli studenti universitari presentano su di egli le tesi di laurea. A quel punto il Magnifico Rettore di turno, nella folle corsa verso la visibilità (la vita che imita la pubblicità, si disse), conferisce a costui la laurea ad honorem in scienze della comunicazione, e gli studenti che fanno? Gli intellettuali di domani e di domani l'altro che fanno? Contestano? Vanno in delirio, applaudono e filmano.

Tutto si filtra con tutto, tutto muta e si sovverte, tutto rotola, tutto scivola, tutto fa brodo, tutto è bene quel che finisce bene...

Ricordo che a suo tempo anch'io desiderai, con pochi mezzi e prematuramente, sovvertire le cose; anch'io avevo avuto la mia visionaria intuizione post-modernista: avevo otto anni, accendevo il Commodore ed aspettavo pazientemente la cassettina, per poi... No, non giocare, ma lasciar suonare la musichetta. Fingevo di essere un grande tastierista, un impassibile Freezer come nel film che poi girerà Verdone, una eminenza grigia che non ride mai, con degli stranissimi sunglasses, che a suo modo era una grande star, e che si cimentava in quelle musichette da videogioco con un piglio che di giocoso non aveva nulla, anzi, era proprio una gran cosa seria.

A furia di chiedermi come fare per registrare quelle musiche e farne una compilation, decisi per l'unica soluzione domestica alla mia portata: avvicinare quanto più possibile il registratore scassato dei miei alla cassa della tivù, e registrare. Un lavoro sfiancante, per quindici videogiochi, tutti da caricare uno dietro all'altro, col mangianastri in pausa. Ve lo ricordate quanto era lento a caricare il 64? O forse, M.A.M.E. gratias, ce lo siam scordati?

Ascoltavo quella sudata cassetta mattina e sera, e dei videogiochi chi se ne importava più? Sognavo d'avere una band che riproponeva quei brani ad una platea più ampia, e che componeva nuova musica per nuovi videogiochi bidimensionali. Sognavo una raccolta di hits da intitolare "Delicate Sound Of Commodore", sognavo le interviste di Maurizio Seymandi e di venire lanciato direttamente al top della Superclassifica dal Dj X.

Il mondo poi si mescolò ulteriormente, grazie ad una tecnologia ben superiore a quella del mio computerino impacchettato e riposto chissà dove, oramai. Recentemente scopersi che il mio sogno non fu solo mio, e che qualcuno lo realizzò persino: c'è non una band, ma una vera e propria orchestra, a riproporre quei brani."Che pazzi!", esclamai: con tutto il repertorio a loro disposizione, proprio la "mia" musica! Beati i pazzi!, mi verrebbe da dire, che han la forza di coronare i loro sogni. Dannati i pazzi!, mi verrebbe da dire, che realizzando i loro sogni mi privano dei miei.

Ascolto la no-wave dell'uomo che da piccolo, pur non conoscendolo, sognavo di divenire, e sono appagato: la no wave è la musica che preferisco sin da adolescente. Certo, non c'è Vega, ma è normale. Però è l'iniziale "Mari" a rimanermi dentro, musica non dell'adolescenza ma dell'infanzia; la giocosa "Mari", l'infantile "Mari", la commodorosa "Mari", la plasticosa "Mari", la fucsia "Mari", e ritornano le immagini deposte chi lo sa dove di preciso, come il Commodore, mentre anche il sogno perduto è di nuovo mio, per  quei tre-quattro minuti: sognare d'essere un bambino, sognare d'essere "quel" bambino che ero; sognare d'essere quel bambino che accende la cassettina e che a sua volta sogna di nuotare dentro ad una piscina olimpionica colma di Selson Blu, di Perlana fucsia, di Coccolino rosa... Nuotare e poi immergermi, e sentire le note che arrivano cupe fin lì dentro. Senza uscirne mai più.

Beati i pazzi.

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