Moondog può essere considerato uno dei migliori compositori del ventesimo secolo. Ciò che rende tanto importante il suo contributo artistico è il fatto che gli venga attribuita la creazione di numerosi strumenti etnici che saranno importanti per la posterità musicale. Nonostante fosse cieco e nonostante fosse alternativo per la sua epoca, e in un certo senso alienato, Moondog è riuscito a crearsi una cerchia di estimatori e un seguito notevole, dal fronte jazz a quello sperimentale.

Rimasto privo della vista all’età di sedici anni a causa di un incidente, Louis Thomas Hardin si interessa alla musica, e la studia presso diverse scuole per ciechi in giro per gli USA. Da autodidatta impara i rudimenti della musica sperimentale e piano piano si interessa a un “genere” a lui nuovo: la musica dei nativi americani. Ben presto diventa famoso per il suo aspetto fisico e per il suo modo di presentarsi: Moondog vivrà per vent’anni a New York per strada di sua spontanea volontà, portando la sua caratteristica barba lunga e indossando dei vestiti da vichingo, estremamente essenziali, creati da lui stesso, con tanto di corna sulla testa. Incarna, così, a pieno il modello del dio Thor norreno. Vive, soprattutto, dei suoni che la New York metropolitana gli offre, quei suoni urbani che ispireranno la sua musica. In questa trova profonda e costante catarsi: è come se i suoni che gli pervengono e che crea curassero i suoi drammi interiori, i suoi crucci esistenziali.

Dopo numerosi singoli, EP e album di stampo jazz con numerose etichette discografiche, l'artista metterà la firma al suo capolavoro, l’omonimo del 1969, da non confondere con quello del 1956 (questo per la Prestige, il secondo, argomento della trattazione, per la Columbia). Caratterizzato da sonorità svariate, che spaziano dalla classica alla etnica, dotato di quel tocco minimalista inconfondibile e marchio di fabbrica, “Moondog” è a merito uno dei massimi lavori moderni della musica sperimentale. Certo, non si può ricondurre tale sound a quello portato agli estremi tipico dei Velvet Underground, forse è tutto l’opposto, ma fa parte dello stesso campo. Il minimalismo di fatto è una forma d’avanguardia che affonda le radici nell'arte sperimentale.

Witch of Endor”, penultima in scaletta, spicca per la sua genuinità classica: è come se l’ascoltatore si immergesse nel placido mare della musica classica e si facesse ammaliare dalle dolci onde che lo trasportano. “Witch of Endor” è una delle più belle composizioni degli ultimi cinquant’anni, probabilmente la più emotiva dell’album. La traccia iniziale “Theme” è un eccellente brano in cui le percussioni la fanno da padrone, e gli strumenti del jazz coronano il tutto. La voce di Hardin si palesa solo due volte, non per cantare, ma per recitare brevi frasi autografe, nei due pezzi “Stamping Ground” e “Symphonic #6 (Good for Goodie)”. Notevole è anche “Minisym #1”.

Gli strumenti convenzionali non vengono suonati da Hardin, ma da musicisti coinvolti nella realizzazione dell’album; Hardin è addetto alla composizione e alla direzione musicale e suona due strumenti da lui inventati, la Trimba e l’Hus (il primo compare in “Minisym #1”, il secondo in “Witch of Endor”. “Bird’s Lament” viene dedicata a Charlie Parker, sassofonista, pioniere del genere bebop, morto nel 1955. Musicalmente questo pezzo può essere considerato una “ciaccona”, vale a dire un tipo di danza tradizionale cinquecentesca spagnola (o forse latinoamericana). Una delle tre “Symphonique” dell’album è dedicata a Benny Goodman, “the King of Swing”, ancora in vita nell’anno della pubblicazione del capolavoro “moondoghiano”.


Voto: 9/10

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