Che sfiga, i Naked Prey!

Capitanati da Van Christian, perfetto "signor Nessuno" che si è giocato i fatidici cinque minuti di celebrità pestando i tamburi negli oscuri Serfers (originario embrione dei Green On Red), i Naked Prey sono fin da subito destinati al ruolo di gruppo minore, stretti tra Dream Syndicate e Green On Red, dai quali traggono peraltro insegnamenti preziosi ed influenze assortite. Non è certo un caso che per il loro esordio del 1984 si scomodino a vario titolo personaggi come Steve Winn, Paul Cutler e Dan Stuart, venga pubblicato dalla Down There ed abbia una copertina fedele fin nei minimi particolari a quella dell'ep con cui i Dream Syndicate si erano presentati al proscenio del mondo due anni prima.

Fosse stato pubblicato dieci anni dopo, senza avere come termini di paragone capolavori quali «The Days Of Wine And Roses», «The Medicine Show» o «Gravity Talks», il dischetto in questione sarebbe risaltato in misura ben maggiore.

Perché «Naked Prey» è un gran bel disco, profondamente ancorato alla tradizione del classico rock a stelle e strisce, ma rivisitato con una potenza che si può definire hard, e in taluni frangenti addirittura heavy. Infatti, più che ripercorrere pedissequamente le orme di Dream Syndicate e Green On Red, i Naked Prey offrono una rivisitazione personale e fino ad allora sconosciuta del suono Paisley. Se pensate ai manifesti del movimento, «Rainy Day» e «Lost Weekend», dentro ci trovate le diverse anime, da quella sognante e quieta a quella acida e rumorista, passando per quella caciarona e scanzonata,  ma non certo quella del rock pesante.

Forse perché, in fin dei conti, i Naked Prey non sono propriamente catalogabili nel circuito Paisley, ma piuttosto dei precursori di quel desert-stoner-rock (sarà la provenienza da Tucson) che di lì a breve troverà forma e sostanza: se riuscite ad immaginarlo, racchiudono in sé, senza contraddizioni, la radicalità dei Giant Sand e la pesantezza dei Kyuss.

Pesantezza. È la sensazione prevalente trasmessa dalla musica dei Naked Prey, sia che si traduca nel canonico giro di blues di «Little Lucy» o nello spasimante psychobilly di «Voodoo Godhead»; che affiori nei momenti di requie di «The Story Never Ends» e «Billy The Kid II» o sia l'indiscussa protagonista dei tour de force di «Freezin' Steel» ed «Hour Glass»; o innervi le ballate «Friend To Me», «Take The Word» e «No Place To Be»; o si scateni nel rock'n'roll senza fronzoli di «Too Far Gone», «Flesh On The Wall» e «Million Rifles».

In ritardo ed alieni per il Paisley, in anticipo per il desert-stoner, i Naked Prey perseverano in un anonimato da cui non usciranno mai. Ci proveranno qualche tempo dopo con «Under The Blue Marlin», riuscendoci in minima parte, ma lasciandoci in eredità uno dei brani più belli degli anni '80, l'epica cavalcata elettrica che risponde al nome di «What Price For Freedom» e che non avrebbe sfigurato nel repertorio dei migliori Dream Syndicate.

A gruppi come i Naked Prey ed a uomini come Van Christian non si può fare a meno di voler bene, a pelle.

Carico i commenti... con calma