E’ il 1981 quando compare sulla terra questo prezioso gioiello di world music. Ancora i grandi del rock (Peter Gabriel, Paul Simon, Damon Albarn, ecc..) non si sono cimentati nei futuri tour de force che li porteranno a incontrare le sonorità terzomondiste, ancora non sono stati infranti gli ultimi tabù di contaminazione tra generi tipici di paesi diversi.

Nell’attesa di quelle grandi rivoluzioni culliamoci intanto nel dolce secondo album del marchio Penguin Cafe, un album che “si limita” a un meraviglioso viaggio tra le diverse tradizioni musicali europee, da quelle nordiche a quelle deliziosamente baltiche.
L’illustre discografia della Penguin Cafe Orchestra altri non cela che lo straordinario Simon Jeffes (1948-1997), eclettico polistrumentista inglese che -dicono gli aneddoti- durante una convalescenza ospedaliera (Cat Stevens docet) concepì il progetto di assemblare una “orchestra”, che potesse catturare tutti i suoni possibili provenienti dal mondo e poi sprigionarli in un lieve ma enciclopedico sound multi-etnico.
Dopo illuminanti scambi di idee con il guru Brian Eno, Jeffes pubblica per l’etichetta di questo (l’Obscure) Music From the Penguin Cafe (1977), dove i semi del sincretismo musicale vengono gettati e annaffiati con prime grandi sperimentazioni folk-jazz. E’ questa la strada che giungerà a piena maturazione con PCO, summa della curiosità, dei piaceri, delle atmosfere, dei divertimenti che un uomo comune può ottenere dalla musica concepita nella sua accezione più artistica.

Anni luce lontana dall’edonistico rock’n’roll, questa allegra armata brancaleone armata di violino, cello, ukulele, bongo, oboe e altre meraviglie acustiche si mette in cammino per il mondo. Partendo da Canterbury attraversano un Europa quasi medioevale, sicuramente che profuma di antico, tra foreste, steppe e piccoli ruscelli, grandi laghi vicino ai quali riposare. Tutto il viaggio è interamente strumentale, forse per dare ancor più rilievo ai suoni, ed è un sano unplugged ante litteram, dove il minimalismo diventa la ricetta segreta per amalgamare così bene armonie jazz, sfondi folkeggianti/popolari, ritmiche africane, swing e prototipi del trip-hop (per credere provare “Telephone And Rubber Band”dove viene creata una melodia dal campionamento di suoni telefonici!).
Il disco è un bizzarro manifesto dell’eclettismo, ma sempre con un’omogeneità di fondo che rende questo IL suono tipico della PCO, e ogni traccia (sarebbe una volgarizzazione pop chiamarle canzoni) sembra indirizzata a un’elogio della natura e al senso panico di gioia di vita che ne deriva. Emily Young con le sue suggestive illustrazioni di copertina e libretto ci mette del suo per esaltare questo concetto new-age, con la rappresentazione di pacate figure dal corpo umano e dalla testa di pinguino (forse un richiamo alla simbiosi uomo-natura, oltre che al PenguinCafeStyle) che si muovono in un paesaggio rigoglioso e arcadico, con al centro uno chalet dove un pinguino accoglie chiunque abbia voglia di farsi una bella acoustic-session…

Ho cercato questo disco per tre anni, finendo per trovarlo sotto un ponte vicino a Stephan Platz a Vienna, da un ungherese di nome Karl. Per averlo ho dovuto per due sere rimpiazzare il chitarrista della sua “Donovan Cover Band” a una specie di festa del luppolo. Ma vabbé, ci poteva stare.

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