Non sono mai stati giganti nei mari del britpop i Puressence, e il loro relitto è ormai lasciato al degrado di una darsena abbandonata, così come appare nella cover del loro omonimo disco d'esordio. Se li ricorda chi come me in quel movimento ha sempre ricercato maggiormente l'estro compositivo tipico di gruppi come i Suede o i Manic Street Preachers, e il retrogusto amaro e decadente di quei suoni.

C'è un punto nel tempo in cui ciò che si è vissuto diventa ciò che è ricordato. La memoria può cambiare la forma di una stanza o il colore di un vestito. I ricordi possono distorcere il corso degli eventi, sono una nostra interpretazione, una mistificazione della realtà. Eppure anche riascoltandolo oggi questo disco si rivela al mio udito come un piccolo gioiellino, calato in quel contesto. Nulla di eclatante, sia chiaro, semplicemente quel giusto connubio di melodie azzeccate e di un sound che sapeva distinguersi.

Il tempo credo sia stato anche la chiave del loro insuccesso. Arrivarono tardi a cavalcare quell'onda e, nonostante il peso di una casa discografica come la Island alle spalle, probabilmente non riuscirono a calamitare le attenzioni e i favori della stampa di allora, ormai satura di “next big things”. Affascinanti come un fiocco di neve che cerchi di afferrare, ma nel momento in cui ti accingi ad aprire la mano già non c'è più.

Puressence è un disco che vive di contrasti. Uno scontro senza vincitori né vinti tra la fragilità emotiva del cantato e la tensione irrequieta dei suoni. Una formula che il gruppo si porterà avanti anche nei successivi lavori, ma che mai come in questo esordio risalta nella sua genuinità, grazie a tante piccole imperfezioni. Un sound ancora grezzo che viene sovrastato dal tormentato falsetto di James Mudriczki, a portare squarci di malinconia tra i fragori elettrici e le piogge di feedback delle chitarre. Con il suo androgino vibrato la voce si arrampica attorno ad accordi inafferrabili, quasi volendo eludere la melodia di fondo, e spesso rincorrendo le armonizzazioni più improbabili. Gli strumenti giocano invece a trattenere l'irruenza, come nuvole pesanti gonfie di pioggia, pronti a scaricare nei momenti giusti i propri assalti. "I Suppose" fu il singolo scelto per promuovere il disco, un brano accattivante che sembra coniugare alla perfezione le due facce della band, a metà strada tra gli U2 di inizio anni ottanta e i Radiohead della prima fase. Quello che doveva essere l'apripista per una carriera ricca di soddisfazioni però fallì nell'impresa, così come la più oscura e orientaleggiante “India”. I meccanismi del music business sono sempre andati aldilà della mia comprensione e chissà che non sia proprio quest'ultima parola la chiave di tutto. “Understanding” è infatti il titolo della splendida ballad del disco, la potenziale “sliding door”, la canzone che avrebbe potuto invertire le sorti dei Puressence. E che purtroppo non fu mai scelta come singolo. Ma qui entriamo in un tema che lascio volentieri ad Aristotele. Ai futuri condizionali preferisco i ricordi di quello che ero e i frammenti di vita che mi hanno portato dove sono oggi. Ad osservare il mondo immobile dalla finestra, perso tra il suono della pioggia e i miei pensieri imperlati come gocce sui vetri.

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