I Girls Vs Boys furono tra i gruppi più interessanti nella giungla indie-noise statunitense nello scorso decennio. Dopo l’ apprendistato in quel di Washington DC (trascorsi Dischord per un paio di loro), il quartetto capitanato dal carismatico Scott McCloud approdò alla Touch and Go per realizzare nel cuore degli anni 90 alcuni lavori che ancora oggi risplendono, fino ad arrivare persino a incidere per mamma David Geffen. Nonostante il gruppo fosse coccolatissimo dalla stampa specializzata, che coniò l’infelice definizione di “nuovi Nirvana”, McCloud e soci non sfondarono commercialmente, e lentamente sprofondarono nell’oblìo, nonostante il ritorno nel mondo indie fosse coinciso con un buon album “You can’ t fight what you can’t see” del 2002, a tutt’oggi ultima fatica discografica dei nostri.
Peccato, perché la ricetta sonora del quartetto suona ancora oggi sofisticata e intrigante, rispecchiando in pieno un decennio vissuto sulla contaminazione tra generi. “Cruise yourself”, uscito nel 1994, se la gioca col precedente “Venus Luxury baby n. 1” per la palma di capolavoro del gruppo, o perlomeno di opera che ne definisce al meglio gli orizzonti sonori. Il risultato è un sound davvero brillante e moderno, capace di sintetizzare mirabilmente le aggressioni chitarristiche di scuola Fugazi e pattern ritmici ossessivi di matrice new wave (i seminali Gang of Four sono dietro l’angolo) che spesso sfociavano in mantra dal sapore tecno-tribale, reminiscenti i Cop Shoot Cop (il tastierista Eli Janney spesso suona un secondo basso, accentuando decisamente l’enfasi ritmica, è frequente l’uso di campionamenti mentre il batterista Alexis Fleisig picchia come un fabbro, sovente su spiazzanti ritmiche kraut-rock).

Una miscela certamente comune in quel periodo, ma pochi come i Girls Vs Boys seppero trovare spunti ispirati e felici, in modo da far risultare una cifra stilistica autonoma ed efficace, in grado di generare un rock aspro e mai enfatico, dinamico e spaventosamente notturno. A dare un quid alle canzoni di “Cruise yourself " è poi il cantato di McCloud, tagliente e cinico nel solco di Mark E. Smith dei Fall, con testi recanti storie di alcool, sesso, corse notturne in auto e noia assortita. Nessuna apocalisse urbana alla Cop Shoot Cop, ma frammenti di ordinaria e languida depravazione metropolitana.
Sono davvero parecchi i momenti da riporre in bacheca di questo album, a partire dall’opener “Tucked in" : i Killing Joke trasportati nel magma sonoro degli anni 90, fino a sfociare in una coda chitarristica degna degli Slint.
Favolosi anche i due singoli “Kill the sex player” e “I don’t got a place”, quest’ultima avvolta da canditi psyco-pop semplicemente squisiti, laddove è il bassista Johnny Temple a condurre le danze nei groove intensi di “Explicitly yours” e “Psychich know how”. Detto della marziale cavalcata alla Gang of Four “Raindrop”, il meglio arriva alla fine. “My martini” ammalia grazie a un testo spassoso e a delle tastiere stranianti, dalle parti dei Wire: effetto replicato da "Glazed eye”, che si basa su un fantastico uso del vibrafono da parte del poliedrico Jinney, mentre lo strascicato cantato di McCloud - che ripete ossessivamente “you're swinging too high” - le malinconiche linee di basso e le sempre efficaci parti chitarristiche forgiano un pezzo perfetto.

In definitiva un disco davvero impedibile, ideale colonna sonora di un ipotetico romanzo di James Ellroy ambientato nella East Coast: mirabile suggello di un’epoca musicale felice e forse irripetibile. Peccato soltanto che la tanto decantata “nazione alternativa” di quel periodo fosse ben più conservatrice di quanto si credesse, impedendo a gruppi come i Girls Against Boys di raccogliere il giusto consenso di pubblico.

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