Tempo fa comparve nei cieli progressivi un tremolante astro, una cometa che illuminò una terra blues scura come quella statunitense. Nella suo psicologica nomenclatura, essa prese forma corporea e regalò al mondo un gioiello puro, una gemma inestimabile.

Quella gemma era “Pampered Menial”, spettacolare ellepì d’esordio della numerosa band americana - sette i componenti, una formazione atipica per le scena di allora e comunque proposta in variante anche dai fenomenali Kansas. I Pavlov’s dog vedevano nella voce budinosa di David Surkamp l’anima pulsante ed in arrangiamenti complessi ed avvolgenti lo scrigno che recasse alle genti cotanto splendore. Di quell’album mi sono invaghito, quella calda eppur stridula voce che tanto sento detestare provoca in me emozioni vere, come solo le opere meravigliose riescono. L’album se ne uscì per l’ABC – era il millenovecentosettantacinque - gongolante nella sua cagnosa copertina.

Passa un anno: la cometa, seppur meno luminosa, è ancor visibile. Persa una pedina importante (il violinista Siefried Carter – me lo disse il Rizzi, ohibò!), la band si lancia nella sua seconda opera, completando la formazione con due importanti ospitate, quelle del grande Bill Bruford e del sassofono di Andy MacKay. Le canzoni di "At The Sound Of The Bell" sono ancora nove, la formula sembra quella vincente: come direbbero con le loro vocine isteriche da mangianastri del prof delle medie i simpatici giovinetti dei testi d’inglese, “Oh, let’s have a look”. Certo, potrei scrivere poche righe sintetiche, di facile lettura… Ma in fondo, perché? Si sa, sono un irrimediabile e macchinoso amante del prolisso fluir di parole, pertanto ne nascerà la solita recensione caustica. Come direbbe Long John Silver, metafore a gogò, yo ho ho!

She Came Shining” apre tra soavi nuvole sonore con la splendida voce di Surkamp, la quale subito si lancia in una discesa saltellante tra i prati delle tastiere di David Hamilton e Doug Rayburn. Lei venne brillando e brillando s’inncamminò gioiosa, mentre i cori e la chitarra di Steve Scorfina festanti l’accolsero in questa mia bucolica licenza. ”Standing Here With You” è una lancinante ballata per piano e percussioni, invero molto dolce e delicata; da brividi gli inserti di violino (chi lo suoni, non si sa, ma tant’è). Bel brano, forse un tantino manieristico: sensazione che infonde anche la successiva “Mersey”, ballata convenzionale con tanto di assolo di sassofono. La voce di Surkamp rimane avvolgente, ma non accenna a voler decollare come l’anno addietro. Non ancora, almeno: a smentirmi, “Valkerie” riporta alle atmosfere che furono, il cantato martella inquieto su di una chitarra raggelante. Un brano duro ed indubbiamente bello, complice anche di Mike Safron il rarefatto tambureggiar.

Breve e simpatica come una pioggerella in aprile, segue “Try To Hang You”, canzon che non sconvolge ma nemmeno lascia fango dietro di sé. Il bel tempo è però prossimo: subito insostenibile d’organetto, “Gold Nuggets” è lacrimevole; la tremula voce di Surkamp dirada le nubi mentre la sei corde vibra iridescente. Comincio a pensare che l’ellepì finalmente possa decollare per il gran finale, quand’ecco di nuovo l’ombra del sassofono; pronto a temere il peggio, in realtà sbatto contro una veloce “She Breaks Like A Morning Sky”, appassionata e scoppiettante come le caldarroste sul caminetto d’una sera di novembre. L'ottone di MacKay si dimostra invero dosato ed efficace. Si torna davvero ad alti livelli con la bella “Early Morning On”: il segmento in cui Surkamp veleggia tra cori infantili e celestiali note di tastiera è ai limiti del commovente e l’ossatura d’avorio regge splendidamente il brano, che fonda anche sull’oscuro lavoro del basso di Rick Stockton. Lieta del suo volar pindarico di tastiere, chiude la fremente “Do You See Him Cry”: in sella alla sua voce Surkamp cavalca attraverso verdi praterie sintetizzate e tramonti di violino, fino a giungere al gotico castello del regno progressivo, ove ogni mia recensione trova alloggio.

Orbene, la capacità di scrittura e d’espressione di Surkamp è immutata, la pulizia e la classe dei suoi musici è evidente. Eppure un po’ di magia vien meno: belle canzoni, a volte bellissime, ma il nastro di pathos viene sovente sfilacciato. Non ha torto chi considera "At The Sound Of The Bell" inferiore al predecessore; un ottimo album, comunque, che viene apprezzato ancor più dopo diversi ascolti. A questo presunto ultimo battito seguì in realtà nel ’77 un “Third”, edito solo nel 1994 dalla TRC. Fine? No.

Righe fa, prima di perdermi nei meandri dei miei discorsi, parlai di una cometa: nonostante gli album di questa incantevole band si contino sulle dita della mano di Topolino, essa non è una meteora, bensì una cometa: come ben sa il diligente lettore, le comete ritornano. Surkamp sciolse il gruppo quando si rese conto che la casa discografica (a quei tempi la Columbia) chiedeva loro di produrre “musica di merda” (testuale) a fini commerciali; i contatti tuttavia rimasero e gli strumenti si mantennero caldi. Da una reunion nacque nel 1990 un quarto album, tal “Lost In America” (per un’etichetta improponibile quale la Telectro), fino alla voce che infin mi giunse di un tour fresco fresco; magari, chissà… forse la voce da trampoliere di Surkamp porterà ancora una squarcio di luce su questo mondo.

 

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