L'esterofilia, spesso, è un male necessario. A volte, però, è solo un pretesto snobistico. In Italia, si guarda sempre con occhio critico alla filmografia nazionale (che in effetti non offre grandi titoli, almeno in questi ultimi vent'anni), e si elogiano, qualche volta impropriamente, le pellicole straniere. Ma anche noi italiani abbiamo le nostre glorie nazionali. E così, fra un Monicelli ed un Fellini, fra un Antonioni ed un Ferreri, ecco spuntare il nome di Francesco Rosi, regista di grandissimo talento, sottovalutato da quasi cinquant'anni, nonostante una serie di film di altissimo livello ("Le mani sulla città", "Cadaveri eccellenti", "Cristo si è fermato ad Eboli", "Tre fratelli").

Il suo capolavoro è "Salvatore Giuliano", che, se solo l'Italia avesse un briciolo di dignità, inserirebbe immediatamente fra i film di interesse culturale. Perchè "Salvatore Giuliano" è molto di più di un film, è un perfetto esempio di cinema verità al servizio del cittadino, senza fronzoli od isterismi artistici, solo la linearità della Storia, fra contraddizioni ed imbarazzanti silenzi politici. La vita del bandito Giuliano, dalla strage di Portella della Ginestra (conosciuta anche come la strage del Primo Maggio) alla morte, tra tradimenti ed inganni, che giungerà nel 1950. Francesco Rosi sceglie la strada della semplicità: cronologicamente ineccepibile, il film si muove con sublime eleganza tra il documentarismo d'effetto e la narrazione dettagliata. E le due forme si intrecciano spesso, fino a formare una sorta di grande epica italiana che va al di là del personaggio Giuliano (sezionato fin nei minimi dettagli,) ma che si inserisce in una sorta di filone che oggi definiremmo "cinema di protesta".

Quello che interessa a F.Rosi non è raccontare le gesta del bandito Giuliano (che, più o meno conosciamo tutti), il suo obiettivo è raccontare la Sicilia, quella vera, quella sanguigna, quella che vive e lotta ogni giorno, divisa tra solitudine, onestà e criminalità. La Sicilia del dopoguerra, attraversata da bambini ed anziani, distrutta dalle rovine di un conflitto che ha cancellato anche la speranza, fra promesse politiche mai mantenute ed illusioni vendute a buon mercato. La criminalità politica, la corruzione, i compromessi serpeggianti fra istituzioni e mafia, le verità nascoste. Allargando un pò il campo sembra di descrivere l'Italia di oggi, e forse, dalla Sicilia dell'immediato dopoguerra all'Italia di inizio millennio, il passo è più breve di quello che sembra.
"Salvatore Giuliano" è allora un film da vedere, per recuperare la memoria storica (che spesso in Italia tende a scomparire), per non dimenticare cosa eravamo fino a qualche anno fa (60 anni, per la Storia, sono uno scherzo!), e perchè, al di là di tutto, è un grandissimo film, sapientemente diviso fra realtà e finzione con momenti di grandissimo cinema (le riprese della strage), ed alcune piccole sfumature (ma neanche tanto piccole) che lo rendono un film curiosissimo, spesso rivoluzionario per come ribalta alcuni clichè cinematografici (la sparatoria a Portella della Ginestra è girata come se si trattasse di un film western)

Da applausi l'intero cast (Frank Wolff, il sempre impeccabile Salvo Randone, Giuseppe Teti, Pietro Cammarata, Federico Zardi), e da standing ovation Francesco Rosi, che accanto al personaggio Giuliano, inserisce l'emblematica figura di Gaspare Pisciotta, luogotenente del bandito, morto durante la prigionia avvelenato con un caffè (è ancora oggi uno dei più grandi misteri italiani).
Il film uscì nella sale nel 1962, in piena epoca democristiana, ottenendo un vergognosissimo VM16. Parafrasando Caterina Caselli: "La verità, ti fa male, lo sai...".

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