Accanto ai blasonati "Marquee Moon", "77", "Suicide", "Pink Flag", "Horses", "Modern Dance", "Are We Not Men", "First Issue", "Unknown Pleasures", "Buy Contortions", "Killing Joke", occorre fare posto a questo magico "Ultravox!" nella bacheca degli sfolgoranti esordi che hanno cambiato il corso del rock alternativo, fondandone le varie "nuove ondate" a fine anni 70.

Molti, troppi onori ha avuto il pur mitico Midge Ure, illustre esponente del synth-pop degli anni 80; altrettanti ne avrebbe meritati il geniale John Foxx, l'artefice dei primi Ultravox, quelli più genuini, più rock, quelli che, per essendo intrisi di un immaginario futuristico, lasciavano volentieri da parte i sintetizzatori più asettici (lo strumento guida degli Ultravox seconda maniera), per allestire intriganti e barocche fortezze armoniche, in cui basso-chitarra-batteria dialogavano amabilmente con i due strumenti più romantici della storia della musica: il pianoforte e il violino (entrambi per gentile concessione di Billy Currie).

Tra le tante vie al rinnovamento formale che interessò la musica rock in era new-wave, gli Ultravox (quanto di meno americano ci si potesse aspettare all'epoca in campo rock) trovarono ad essi più congeniale la soluzione più ambigua. Ambigua perché fondamentalmente ancora con un piede nel passato, vale a dire nella prima metà della decade, quella "progressiva", sinfonica, magniloquente, quella dell'art-rock, quella dei Roxy Music, i loro diretti antesignani. La peculiarità dei primi Ultravox (barocchi in un'epoca di essenzialità; decadenti dopo la morte del glam) si spiega proprio con la peculiarità dei loro sommi Maestri, l'inimitabile band di Ferry, Eno, Mackay e Manzanera, caso a se stante nel panorama del rock prezioso di inizio anni 70 (progessivi e decadenti, ma senza prolissità e pacchianeria).
John Foxx, in particolare, riparte dal crooning grottesco di Brian Ferry, che trova sfogo nell'epos incantatorio di "Life At Rainbow's End", la loro personalissima "Ladytron", o ancor meglio nella splendida "Slip Away", il miglior brano del disco, un valzer elegantissimo, ammaliante, viennese fino al midollo, un sogno ad occhi aperti che riporta dritti a certi film di Ophuls, a certi vertiginosi piani sequenza in aristocratiche sale da ballo... E' musica romantica, ottocentesca (nello spirito chiaramente, non certo nella forma!), che pare lontana dalla realtà, dalla strada, dal punk, dalla new-wave. Il mellotron di "My sex" e il pathos di "I want to be a machine", ballata semi-acustica in crescendo, che pare un omaggio alla quieta disperazione dei Pink Floyd dell'era Waters o agli struggenti epitaffi dei King Crimsom (primi anni 70, siamo ancora lì), paiono confermare la vocazione neo-romantica della band inglese.

E allora dove sta la new-wave? Dove sta il nuovo che avanza? Dove sta la cesura col passato? Perché dovremmo mettere questo disco assieme a quelli del CBGB's? Perché ci sono almeno due brani da consigliare ai fan del grande Stan Ridgeway (sommo "teorico" della new-wave): si tratta di "Saturday Night In The City Of The Dead", incalzante cavalcata metropolitana, e di "The Wild, The Beautiful And The Damned", resa dei conti intrisa di fatalismo e amarezza, proprio come la leggendaria "Camouflage"... brani capaci di tinteggiare quell'epica del quotidiano, che costituisce l'unica glorificazione possibile per una vita da loser.
Non è finita qua. "Ultravox!" è pienamente new-wave, perché il riff di "Wide Boys" potrebbe essere uscito dalla chitarra di Keith Richards, ma il canto filtrato e il suono squadrato ne conferiscono un fascino androide. Ma il brano che più di ogni altro proietta la band negli anni 80 è la splendida "Dangerous Rhythm", un brano reggae (come tanti altri classici della new-wave, da "Prove It" a "Redondo Beach" a "Humour Me", per tacere di Clash e Police), ma di un reggae raffreddatto, cristallizzato, trasportato di forza dal sole dei Caraibi alle luci al neon della Vecchia Europa. E' un brano che da solo fonda il new-romantic, i Culture Club, i Japan, un dolce e caldo abbandono alla propria rassegnazione. Abbandono che riecheggia nel refrain di "Lonely Hunter", un coro di angeli perduti...

Un disco imperdibile, più completo del successivo e blasonato "Ha! Ha! Ha!", troppo succube, a mio avviso, del boogie nevrotico alla "Editions OF You", nonostante il classico "Hiroshima Mon Amour", altre impeccabile ridefinizione del romanticismo per l'epoca new-wave.

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