Il 1978 fu un fuoco di paglia.

Con i soliti amici avevo messo in piedi una band. Dopo pranzo ci incontravamo in uno squallido e malmesso garage, in periferia, per suonare o semplicemente ascoltare qualche disco e bere in compagnia le prime birre. Prime perché l'alcol, come le donne, nella mia vita è arrivato tardi. Diciotto anni. Tanti ne avevo compiuti da un pugno di giorni.
Salvatore alla voce, Matteo al basso e Davide, la cui stazza non gli avrebbe certo impedito di militare nella Gabetti Cantù, che si divideva tra la passione per le casse della batteria e la cura del suo acquario di ampullarie. Aveva dato lui il nome alla band: I Tonni. Suonavamo rock'n'roll. O almeno ci provavamo.

Le canzoni le scrivevo io. Io che, in vista di un esame che sembrava non arrivare mai e incapace di decidere del mio futuro, continuavo a mandar giù a memoria dischi degli Stones, di Bowie e del buon vecchio Lou Reed. Erano brutte, forse banali, e parlavano tutte di Alessandra (perché si chiamava Alessandra, non Giulia, sapete?). Lei, meravigliosa e inconsapevole della mia passione, sembrava avere le idee ben chiare: sarebbe diventata una dottoressa. Frequentava uno dei leader del movimento studentesco universitario e, nei ritagli di tempo, si dava alla sperimentazione di droghe di ogni tipo. Ma questa è un'altra storia.

Nel nostro caso suonare in una band certo non aiutava ad avere successo con le donne. Non aiutavano gli occhiali alla Elvis Costello - avrebbe acquistato popolarità di lì a poco - né i capelli tagliati corti. A quei tempi li portavano tutti lunghi. Gli anarchici olandesi della spettacolare nazionale di Neeskens, Rep e Krol. E lunghi li portava anche Mario Kempes, nostro idolo nonché 10 e stella della nazionale argentina che di lì a pochi giorni avrebbe vinto il Mondiale forse più discusso della storia del calcio.
Ma è di Alessandra che parlavamo quel pomeriggio. Il pomeriggio in cui arrivò il punk.

Francesca è la sorella di Matteo. Aveva vent'anni e a torto o ragione ci aveva sempre considerato poco più che bambini troppo cresciuti. Regina incontrastata del nostro immaginario erotico-sessuale, era irritante e tanto carina quanto stronza. Il pomeriggio in cui arrivò, il punk era lei.
Portava con sé un disco che in terra d'Albione era già popolare da qualche mese. Le riviste specializzate ne erano entusiaste e gli addetti ai lavori parlavano di una vera e propria rivoluzione. "Chissà se è la stessa paventata dai leader dei movimenti universitari." Mi domandavo.
Sogghignando della nostra celata resistenza, gli fece spazio spodestando Lloyd, Verlaine e compagni. E' così che per la prima volta nella mia vita ho ascoltato "Never Mind the Bollocks".

Il cantante ricordava il Klaus Dinger degli La Düsseldorf. Lui non era male. Qualche anno dopo avrebbe dato vita ad una band dove la sua voce ben si accompagnava al basso di un eccezionale musicista di nome Jah Wobble. Ma anche questa è un'altra storia.
Ascoltammo in silenzio. Eravamo scossi e quasi spaventati. Proprio non potevamo accettare qualcuno potesse essere più ribelle degli Stones, più allucinato di Bowie, più sporco delle chitarre di Lou Reed e persino più incazzato, violento e perverso di Iggy.
La band si chiamava Sex Pistols ed era londinese. Proprio a Londra Francesca, aveva deciso, sarebbe andata a vivere. L'Italia le andava stretta e del Regno Unito non non le bastava certo la bandiera, con tanto di faccione della Thatcher, posta in bella mostra sul retro della sua minigonna e che sventolava sculettando con femminile sapienza. Lei il punk voleva viverlo.
Spavaldi. Come lei. Così suonavano i Sex Pistols alle nostre orecchie.

Quasi saltai sulla sedia quando il disco smise di girare. Francesca, mostrando i denti, ci rivolse un ultimo perfido sorriso di compiacimento. Dunque si voltò e ci lasciò soli. Pensai che c'era nulla di più punk di una donna che sorride in quel modo. E lo credo tuttora.
Per cinque minuti, forse dieci, nessuno proferì parola né oso muoversi. Avevamo lo sguardo perso nel vuoto ed eravamo altrove. Io pensavo ad Alessandra. La immaginavo a Londra e che a separarci fosse una fitta parete di pioggia incessante e battente. Londra che neanche avevo mai amato. A me piaceva Liverpool. E il Liverpool, il cui miglior giocatore - sì, a quei tempi il calcio occupava una parte importante della mia vita - si chiamava Kenny Dalglish e neanche era inglese ma scozzese. Proprio come Costello. Dovevo fare qualcosa o avrei perso Alessandra per sempre e non c'era alcun sottomarino giallo o ala scozzese che dopo l'avrebbe riportata da me. Cominciai a sentirmi in ritardo.
A questo pensavo quando Matteo si alzò, recuperò il disco fatto fuori dalla sorella nella mia vita precedente e ascoltammo Guiding Light. Tornò il sereno.

Francesca tornò da Londra nel giro di qualche mese. Oggi lavora come assistente in uno studio odontoiatrico. E' una bellissima donna.

Il 1978 fu un fuoco di paglia. Proprio come i Sex Pistols.

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