Quando mi pare di essere riuscito a scrivere un bel passaggio, me lo rileggo. Narciso. Scandisco le parole, accentuo le virgole e le pause. Mi piace. Non lo posso negare; è una sensazione capace di appagarmi. Lo sponsorizzare pezzi di plastica sonori, visivi e fogli di carta ben rilegati non è nella maniera più assoluta il nobile motivo, chiamiamolo pure culturale, che mi fa pigiare i tasti. Non me ne frega se alla fine ve li andrete a leggere, vedere o sentire. E’ palesemente una scusa, una giustificazione, per poter lasciare spazio al mio intrinseco e narciso ego ben celato sotto quella che so essere una mendace necessità di divulgazione.

Critico da stronzo saccente Facebook/Twitter. Pure quello che verrà dopo. Specchia fin troppo bene la società dell’apparire nella quale siamo completamente immersi. La ridicolizza, ci ridicolizza. La colonna portante di tali social network non è ovviamente il riuscire ad avvicinare le persone “perdute”, ma soddisfare la continua ricerca della condivisione e dell‘apprezzamento. Critichiamo chi abbocca all’amo e pateticamente crea, con meticolosa attenzione, un alter ego fatto di gustose citazioni da inserire nel profilo e di una particolare foto-avatar. Quella lì, particolarmente riuscita, di 10 kg e 7 anni fa che chissà dove cazzo era finita. Su Facebook, quasi tutto lo spazio è occupato per quello che vorresti essere. Puro alimento per il nostro narcisismo, perché dentro di noi sappiamo di essere meglio degli altri; di essere speciali. Tutti.

E’ palese che oramai si tenda a intraprendere qualsiasi cosa non più per ricercare un intimo e personale benessere, ma per ricevere il plauso, l‘apprezzamento, la standing ovation. Foto, video stupidi, musicali, scene di film o spezzoni di cartoni. Questa società ci ha fottuto di quella poca intimità che ancora avevamo. Se crediamo, il fatto di avere ragione o torto è secondario, di avere tra le mani una possibile fonte di invidia/applauso altrui la dobbiamo pubblicare. Non la possiamo lasciare lì, solo per noi.

Spesso fuggo, corro in montagna, per stare da solo e assaporarne il silenzio. E’ tirannica la sensazione che provi la mattina presto, quando dall'alto di una cima ti sembra di possedere chilometri e chilometri di territorio selvaggio. Riesco a scaricarmi delle tensioni accumulate in una settimana; sguinzaglio gli occhi in panorami senza fine, faccio girare le gambe senza semafori di sorta, respiro sicuro aria frizzante e rifletto in simbiosi con tutto quello che mi circonda. In culo a tutte le tentazioni degli anni in cui vivo. Nonostante dica e creda davvero di provare questo, sento sempre il triste bisogno di pubblicare foto in internet e di scriverne. Cedo alla tentazione. Mi fa incazzare provare a criticare una società che credo non mi rappresenti ed essere altrettanto cosciente di farne indiscutibilmente parte.

Su Debaser possiamo far finta, dietro la “cultura”, di essere divérs.

E’ un ambiente stimolante, aperto a tutti. Puoi perdere le ore leggendo con vivo interesse le proposte in home page, oppure spulciare le chicche e trovare magari spunti per arricchire la tua collezione. Ti viene data la possibilità di fare il guardone, il voyeur, e ridere silenzioso di quello che consideri, scuotendo la testa, un caso umano. Lì, seduto dietro alla scrivania, puoi prendere i pop corn e fare finta di essere al cinema mentre si menano due spassosi fake. Ma alla fine indossi la tua armatura e ti butti nella mischia. Vai sul sicuro. Su un disco/film che hai sentito/visto enne volte; sul quale sei certo di saperne oggettivamente misurare il valore. E così un commento, o una recensione, lo piazzi. E Debaser cresce. Passano i minuti e diventa normale controllare se il popolo ti ha risposto, se hai fatto breccia. Se quello che per te è giusto, e meritevole di rumoroso plauso, trova godurioso riscontro anche negli altri. Cinque? Uno?

Vaffanculo Debaser, ti voglio bene.

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