L'impressione che al primo ascolto serpeggia, al secondo si consolida, e dal terzo in poi ti fa pensare che non ci siano altre possibilità è: ma che simpatici, i Pain of Salvation, a trovare questo monicker alternativo, peraltro molto suggestivo, Wastefall, e inserire degli alias altrettanto pittoreschi per i componenti della band:

alla voce chitarre e tastiere: Domenik Papaemmanouil
alle chitarree: Alex Katsiyiannis
alle tastiere: Christos Kyrkilis
al basso: Nick Valentzis
alla batteria: Kostis Papaleksopoulos

Sì, indubbiamente un tiro mancino che poteva essere partorito solo dalla mente poliedrica ed eclettica di Ian Gildenlow: non può esistere un progressive metal così avanzato e sperimentale a Santorini o Mykonos. Fa troppo caldo per concepire certe musicalità oscure e sinistre, per vibrare violenza sapendola abbinare a melodie ora melanconiche ora velenose.

E invece bisogna ricredersi: sì, i Wastefall sono chiaramente degli emuli dei Pain of Salvation, la voce dell'impronunciabile vocalist è identica, tale e quale a quella di Gildenlow: e questo non è necessariamente un male, è anzi un azzardo. Azzardo riuscito, scommessa vinta.

Il disco "Self Exile" (2006, 11 tracce, durata 51 min) è un piccolo capolavoro di heavy prog in cui i nostri ellenici dimostrano un affiatamento spaventoso e scoccano tutte le frecce ai loro archi: anche troppe. Se proprio si vuole fare un appunto in negativo, è il voler tentare "troppo", voler spaziare in troppi generi - commistioni non sempre digeribili con l'elettronica, parentesi folk che strozzano il ritmo, voci femminili a volte non proprio inappuntabili - a scapito della continuità dell'opera.

Tra le song più apprezzabili, dopo l'intro evocativa si parte con "Willow Man", e "The Muzzle Affection", una sorta di dichiarazione di guerra di chitarre e batteria, smorzata dalla bucolica "Dance of Descent". La tregua dura poco perchè con "Another Empty Haven" si tocca uno dei punti più alti dell'album. Ancora sugli scudi la maiuscola prova tecnica dell'impronunciabile (pure lui!) batterista.

L'album si destreggia tra acuti - la devastante "E.Y.E.", la superba "Utopia Fragmented" - fino alla chiusura più soft e desolata di "Provoke the Divine".

L'impressione finale è quella di un album solido ma non ancora perfetto, di una band che se non vuole vivere per sempre nel nome (e all'ombra) degli svedesi, dovrà affrancarsi da molti passaggi che li rievocano troppo chiaramente. Però la tecnica, la convinzione, la sicurezza dietro gli strumenti sono assolutamente da 10 e lode.

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