Eppur mi chiedevo, mentre il 2011 sgocciolava via: ma come mai non sta uscendo l'ultimo album dei Rome? Abituati ad un'uscita ogni dieci mesi circa, la latitanza dell'ultimo album dei Rome era divenuta una vaga assenza che contraddiceva una routine che negli ultimi anni era divenuta, lungi dal tediare, una rassicurante certezza.

Scorreva così il 2011, senza una pubblicazione dei Rome, cosa pur tuttavia comprensibile se si pensa ad un artista che era riuscito in appena un lustro a dare alle stampe cinque album e un EP, tutti di livello più che buono fra l'altro, ma la mia era stata solo disattenzione: agli albori di questo 2012 scopro che il buon Jerome Reuter non se n'è stato certo con le mani in mano e non solo non lascia, e neppure si limita a raddoppiare, ma triplica addirittura!, nel senso che nel novembre dello scorso anno il Nostro aveva quasi segretamente pubblicato “Die Aesthetik der Herrschafts-Freiheit”, un cofanetto uscito in tiratura limitata che – per inatteso successo di pubblico e critica – la Trisol provvidenzialmente ristampa sulla breve distanza sotto forma di ben tre album: “Aufbruch – A Cross od Wheat”, “Aufruhr – A Cross of Fire” e “Aufgabe – A Cross of Flowers”.

Ad animare l'impresa è “L'Estetica della Resistenza” di Peter Weiss (scrittore, drammaturgo e pittore tedesco), titanico lavoro diviso in tre tomi che i rispettivi dischi di Rome prendono come canovaccio e vanno a ripercorrere, arricchendo il discorso di innumerevoli contributi (Bertold Brecht, Pablo Neruda, Friedrich Nietzsche, Bertrand Russel tanto per citare i nomi più noti), andando a delineare quello che potremmo definire una delle opere più ambiziose mai covate in seno al controverso empireo del folk apocalittico.

Ma facciamo un passo indietro, e più precisamente torniamo ai tempi di “Flowers from Exile”, il lavoro che aveva spinto fuori dai confini del neo-folk l'entità Rome per proiettarla in un'area più vasta in cui la musica di Jerome Reuter si faceva nobile e si trasformava in cantautorato impegnato. L'opera, che trattava della guerra civile spagnola, aveva richiesto un tale sforzo di documentazione da far germogliare nuovi stimoli nel giovane cantore lussemburghese, tanto che l'operazione richiese un sequel, l'altrettanto bello “Nos Chants Perdus”, ambientato invece negli anni dell'occupazione in Francia. Ma evidentemente il percorso all'interno della storia dello scorso secolo di Reuter non si era esaurito nell'arco di soli due dischi, e come spinto da una rinnovata urgenza comunicativa, Reuter si è visto costretto a lavorare ancora sul tema: uno sfogo che ha avuto come frutto ben tre album, alias trentasei nuove canzoni, alias centocinquanta minuti di nuova musica, tanto per capirci.

Il lavoro di Reuter è stato intenso e, come da lui stesso affermato, da un punto di vista commerciale la sua fatica è stata, almeno negli intenti, un autentico suicidio commerciale: ma se il folk apocalittico ha un pregio, questo pregio è quello che mai un artista dedito a questo genere sfornerà un'opera commerciale. Poi di difetti il folk apocalittico ne ha tanti, musicisti incompetenti e cliché urticanti, ma non è il caso dei Rome, che oggi più che mai si ergono come la stella più scintillante di un firmamento in cui gli stessi padri fondatori sembrano da diversi anni aver perso la bussola e la convinzione di un tempo.

Il lavoro di Reuter è stato intenso, si diceva, un'attività spossante che lo ha visto per un anno intero intento ad assecondare le sue pulsioni alternando un'attività frenetica di composizione/registrazione/documentazione storiografica alla tranquillità della campagna belga dove era immerso lo studio dell'amico Duke Baudhuin.

L'opera stessa risente del modus operandi del suo artefice che, partendo dallo schema di base posto dall'opera di Weiss, ha saputo incessantemente accumulare nuovi stimoli, rielaborandoli attraverso l'intenso lirismo che da sempre contraddistingue ogni tappa del suo appassionato cammino.

Be generous with your life, with your love, be generous always”

recita la paradigmatica “All For Naught”, e come dare torto ad un artista coerente e rigoroso come Reuter? Una canzone dopo l'altra (la notte era riservata al componimento, la mattina venivano registrate chitarre e percussioni, un paio di ore per dormire e poi dopo pranzo tutto il resto, la sera infine un momento di lucidità per giudicare il frutto del proprio lavoro, prendere o cestinare, e così fino alla fine), laddove l'adozione di una strumentazione analogica lasciava poco spazio a correzioni e ritocchi, conferendo al tutto un'immediatezza ed un'ispirazione travolgenti.

Suoni vintage, quindi, musica che punta all'essenziale (cosa strana per un concept articolato in ben tre album) e fatta eccezione per certe spoken part che vedono la partecipazione di Ruper Kraushofer, “Die Aesthetik der Herrschafts-Freiheit” è totalmente composto, scritto ed eseguito dal solo Reuter, che per l'occasione non si avvale nemmeno dell'aiuto del fedele Patrick Damiani, che non poco aveva contribuito all'economia del suono degli ultimi lavori dei Rome. L'assenza di un produttore accorto nonché raffinato polistrumentista come Damiani ha determinato infatti un ritorno dei Rome a suoni più scarni, a sonorità più apocalittiche, che potrebbero sembrare un passo indietro nel percorso di Reuter, ma che in verità lasciano una maggiore libertà nel processo di composizione, liberandolo da un fardello che poteva diventare troppo ingombrante e da arrangiamenti leziosi che forse avevano finito per ingessare il sound del Nostro.

Certo, l'eredità di album come “Flowers from Exile” e “Nos Chants Perdus” rimane determinante, e lo si sente nelle chitarre spagnoleggianti e nelle fisarmoniche transalpine (anche se poi l'opera di Reuter parla molte lingue, preferisce un approccio poliglotta, multiculturale, cosmopolita, universale), ma è piacevole (e non era cosa da dare per scontata) constatare un ritorno a sonorità più marcatamente neo-folk (al ritorno dei sinfonismi, delle percussioni marziali, delle voci farneticanti che si accavallano incessantemente sulle partiture acustiche, tutti elementi che avevano caratterizzato i primi passi del progetto), senza però perdere al contempo la verve cantautoriale che aveva contraddistinto il cammino recente.

Insomma, Reuter sembra qui trovare la quadratura del cerchio, riscoprendo il suo primo amore Douglas P,, ma rileggendolo alla luce di un talento artistico giunto oramai alla piena maturità. E non è un offesa descrivere questo lavoro come una sorta di “But, What Happens When the Symbols Shatter?” del terzo millennio, come del resto non è eccessivo dipingerlo come uno dei lavori più significativi partoriti dal genere negli ultimi anni. Se non IL più significativo.

“Die Aesthetik der Herrschafts-Freiheit” è quindi un capolavoro, non solo per i suoi contenuti, per la sua mole immensa (e quasi mai quantità fa rima con qualità), ma per l'ambizioso concept che vi sta alla base: una sofferta rilettura della storia recente dell'umanità, una visione trasversale in cui il concetto di resistenza viene analizzato nelle sue complesse connessioni con le sfere della politica, dell'establishment economico e della dimensione sociale, il tutto vissuto con spirito trasversale, neutrale da un punto di vista ideologico (tutt'al più intriso di quell'anticapitalismo che accomuna destra e sinistra) e in un'ottica utopica in cui, in fondo ad un oscuro tunnel di sofferenza, degrado ed insensatezza, sembra brillare la natura umana, i rapporti di altruismo e solidarietà che pure sopravvivono alle barbarie, l'esigenza/speranza di una libertà non solo ricercata ma anche meritata. Un album colto, quindi, e con un messaggio positivo, strano per un album di folk apocalittico, no? Ma laddove i Rome non riescono ad emanciparsi del tutto dagli stilemi del genere ed in particolare da quelli impartiti dalla Morte in Giugno (rivitalizzata da tutti i punti di vista, sia nei suoi frangenti più intimistici, come nel potere visionario delle opere più tese, quali per esempio “Take Care and Control” e “Operation: Hummingbird”), Reuter riesce a superare l'intera scena creando, seppur attraverso un medium espressivo drammatico, un sogno che non è soltanto un guardare con nostalgia ad un passato irrecuperabile, ma che è anche e soprattutto un atto di denuncia/rivolta/resistenza volto al futuro e ad un nuovo ordine da instaurare (anche se il miraggio di questa utopia viene proiettato – dato il desolante presente – oltre il ragionevole lasso di tempo in cui è contenuta la nostra esistenza). Ma il messaggio, ripeto, è sofferto e positivo al contempo, ardito e coraggioso, un po' come era stato il messaggio di quelle menti illuminate che Reuter, altra mente pensante, ha deciso di radunare per supportare il proprio pensiero. Una nobiltà degli intenti che innalza il ruolo che ha l'artista nel fluire e negli sconvolgimenti incomprensibili dell'umano divenire, un ruolo che ben viene esplicato dalla frase che campeggia sul retro della copertina di tutti e tre gli album:

Art Holds a Unity that Hystory does not”.

I tre tomi ovviamente si distinguono per le tematiche trattate e quindi risentono dell'evoluzione del concept che si è deciso di trattare. Ne conseguono umori diversi, anche se poi a guardar bene, da un punto di vista prettamente musicale, i tre capitoli si muovono entro le medesime coordinate, conservando un equilibrio formale, una sobrietà che sono insoliti in un lavoro di tal minutaggio, quando spesso gli artisti, nelle medesime circostanze, preferiscono diluire i contenuti in passaggi prolissi o abbandonarsi in climax tedianti o suite infinite. No, l'impresa è grandiosa, ma Reuter continua a costruire la sua arte con semplicità, come se il suo album durasse un terzo di quello che dura: i suoi brani continuano a non andare oltre la manciata di minuti, salvo qualche parentesi atmosferica che ama indugiare qualche minuto in più, ma che infine non valica il confine della semplice cornice, indispensabile per meglio focalizzare il messaggio dell'artista e valorizzare la sostanza, la consistenza della sua arte.

E così tutti e tre gli album si aprono e si concludono all'insegna di un evocativo ambient sporcato dal caos della storia, da voci, da testimonianze e da sfocate immagini che si smaterializzano appena prima dell'annebbiamento celestiale che conduce ad una regressione nei recessi più profondi della natura umana. Tutti e tre si sviluppano nei ranghi di un equilibrato mix fra interludi sinfonici (“The Brute Engine”, “The Conquest of Violence”, “Appeal to the Slaves”), cupe visioni industriali (“Our Holy Rue”, “Families of Eden”) e le proverbiali epiche, intense, desolanti folk ballad di Reuter (“The Spanish Drummer”, “To Teach Obedience”, “Seeds of Liberation”, “August Spies”, “All For Naught”) che, a mazzetti di due e tre alla volta, si distribuiscono in un quadro apocalittico nel quale riescono a sopravvivere limpidi slanci cantautoriali (“The Death of Longing”, “In Cruel Fire”, “Little Rebel Mine”), declamazioni post-punk (“Sons of Aeth”) e gioielli pop di autentica bellezza (“Automation” su tutte) che certo non ledono con la loro orecchiabilità un contesto fatto di drammi inenarrabili.

“Aufbruch – A Cross od Wheat”, “Aufruhr – A Cross of Fire” e “Aufgabe – A Cross of Flowers” sono la sofferenza, l'impeto che porta alla ribellione, il seme della rivolta, e poi lo sviluppo delle correnti filosofiche e delle ideologie, l'esplodere delle guerre, l'affermarsi dei totalitarismi ed infine l'utopia, il miraggio di un mondo nuovo di libertà ed solidarietà dove trionfano l'autoaffermazione e la dedizione all'estetica morale. Impossibile descrivere il susseguirsi delle emozioni che riesce ad emanare questo complesso di cose, dove tutti gli elementi della poetica reuteriana trovano felice sfogo, vuoi nelle fasi più cruente, quanto nei momenti più introspettivi che ne fanno l'inevitabile contrappunto.

Ad un primo ascolto è tutto magnifico, la voce di Reuter è magnifica, Reuter è un vero cantante e la sua voce è una splendida epifania in mezzo al caos, una miracolosa apparizione che dall'inizio alla fine è in grado di ipnotizzare, emozionare, commuovere, far riflettere, a partire dai primi versi cantati di "The Spanish Drummer" che irrompe dopo il rombare delle percussioni militari (voce che declama “give me silence, give me some truce!”), per estinguersi nell'emblematica frase che apre la (quasi) conclusiva “Ballots and Bullets”: “One world, one federation, a million tribes”.

E' tutto magnifico, ma è anche come una secchiata d'acqua su un pavimento di marmo: impossibile assorbirne la bellezza in un sol colpo. Per questo “Die Aesthetik der Herrschafts-Freiheit” è da sorseggiare a piccoli sorsi come il vino migliore, e per questo è consigliabile lasciarlo crescere sul proprio comodino insieme ai due volumi dei racconti di Cechov.

Capolavoro.

Carico i commenti... con calma