Il mondo degli ascoltatori di musica che hanno anche il vizio di scrivere è composto in buona misura da idioti. La musica elettronica non fa eccezione: che si fregino del titolo di critici musicali o meno, gli idioti amano in particolare dire la loro quando si parla di musica innovativa. E cosa c'è di meglio in tal senso del vasto genere che è responsabile di moltissime delle innovazioni musicali avvenute da mezzo secolo a questa parte? E' qui che gli idioti ci regalano recensioni spericolate in cui si fa ampio uso di frasi fatte, di espressioni come "spingendo l'accelleratore (sic) sulla sperimentazione" e "manca di soverchia attitudine al barocco" (esempi reali), in cui l'uso di parole di più di quattro sillabe è motivo di vanto per l'autore, neanche ci volesse il porto d'armi, e dove ogni termine viene scelto per il suono che evoca, con poco o nessun riguardo per il suo significato.

Aphex Twin sembra essere, in Italia, una vittima illustre di questo crimine iterato da parte degli idioti. Ed è per questo che sento il dovere di scrivere la quarta recensione di drukQs di questo sito.

drukQs è indubbiamente il miglior album pubblicato da Aphex Twin, alias del musicista britannico Richard David James.

Dopo pochi mesi dall'uscita su Warp nell'autunno del 2001, questo lavoro disponibile in doppio CD e quadruplo vinile aveva già diviso i fan in due fazioni contrapposte, quella degli affascinati e quella dei delusi.

Unico punto su cui la maggior parte degli ascoltatori sembra concordare, stando alle opinioni che ho raccolto nel tempo, è che le tracce sono di due tipologie ben differenti: ci sono quelle diciamo "drill'n'bass" (il termine è stato confezionato apposta per il genere di ritmi frenetici preponderanti nella musica di Aphex alla fine degli anni '90, ma ha poco valore filologico ed è decisamente modaiolo, per cui prometto che non lo utilizzerò più nel seguito) e quelle più calme, siano esse composizioni di pianoforte o brani ambient. Ma questo è un commento che può scapparti solo durante i primi ascolti. Ovunque si leggono infatti recensioni affrettatissime che denunciano una complessiva inconsistenza dell'album, secondo alcuni un'accozzaglia di quelli che sarebbero potuti essere due album differenti.

Ebbene, niente di più sbagliato può essere detto riguardo a drukQs: concedendosi ripetute ed approfondite immersioni ci si rende ad esempio conto che, sebbene esista un'alternanza piuttosto marcata fra tracce ritmiche complesse, violente e rapidissime (perloppiù attorno ai 180 BPM come la vorticosa Ziggomatic 17) e brani più lenti e all'apparenza semplici, questi ultimi sono a loro volta ben differenziati l'uno dall'altro. Per le tracce veloci è necessario un numero enorme di ascolti al fine di far emergere l'ordine presente ma nascosto nella complessità clamorosa, evidentemente partorita da ore ed ore di lavoro di quello che definirei un genio nell'arte di scrivere partiture ritmiche, che nella musica elettronica è nota come drum programming. Eppure, distribuito negli intervalli tra queste, si trova un non meno interessante campionario di suonate di pianoforte più o meno manipolate, ad alcune delle quali sono stai aggiunti talvolta pochi semplici suoni percussivi (Beskhu3epnm) altre volte dettagli di grande stile, come il rumore dei meccanismi all'interno del pianoforte automatizzabile Yamaha Disklavier sul quale sono state fatte le registrazioni; e ancora, inquietanti colonne sonore elettroacustiche (Gwely MernansGwarek 2) che rendono omaggio ai pionieri dell'avant-garde dei quali James è grande estimatore fin da ragazzo, quadretti che sembrano il lavoro di una ensemble di percussioni (Prep Gwarlek 3B) o forse il suono di un complicato carillon (la pregevole Jynweythek). La presenza di qualche breve registrazione fine a sé stessa (AussoisBit4, gli auguri di buon compleanno dei genitori di Richard sulla segreteria telefonica in Lornaderek) può effettivamente far comprendere almeno in parte le obiezioni di chi parla di una giustapposizione incoerente di tracce curate e scialbi riempitivi. Ma se continuate a leggere vi spiego perché le cose non stanno affatto così.

Uno dei talenti a mio avviso più rari nel musicista d'oggi è la capacità di dare vita ad un album organico i cui brani, ascoltati consecutivamente, diano la sensazione di cooperare al fine di trasmettere un'immagine complessiva: qualcosa che sia in grado di portare per mano l'ascoltatore all'interno di un mondo appositamente progettato dall'artista.

In un mercato in cui il paradigma del musicista di successo è il DJ-popstar che vive pubblicando singoli e compilation camuffate da album (vero nel 2001 e ancora di più oggi), un simile valore è decisamente a rischio di estinzione.

drukQs è da questo punto di vista in completa controtendenza. Innanzitutto la stessa eccellente qualità sonora è mantenuta ovunque nell'album. L'ascoltatore dall'orecchio allenato potrebbe notare che in ogni traccia si fa uso consistente della medesima tecnologia per l'effetto del riverbero. Non è possibile dire se si tratti di elaborazione digitale del suono eseguita su un computer, di registrazioni passate attraverso una qualche unità effetti analogica, o chissà cos'altro, e comunque non voglio dare l'impressione che questi dettagli da appassionati di ingegneria del suono debbano importare qualcosa all'utente finale: è però lampante il ruolo essenziale che i riverberi giocano tanto nella caratterizzazione dei brani più ambientali quanto nell'arricchire i synth che emergono dalla complessità delle tracce più violente. Se non fosse in parte musica uscita da strumenti elettronici, verrebbe da dire che quest'album è stato registrato tutto con gli stessi microfoni e nella stessa sala di registrazione. I suoni di percussioni, dal ruolo primario nella maggioranza dei brani, offrono grande varietà e tuttavia sembrano sostanzialmente appartenere ad un unico grande drum kit - ciò conferma la dichiarazione, rilasciata da James in un'intervista, sul ruolo fondamentale che ebbe una certa batteria elettronica modulare (Concussor di Analogue Solutions) nella realizzazione di drukQs.

Attraverso le varie tecniche avvicendate saggiamente lungo lo scorrere dei 30 brani, attraverso l'alternanza di complessità ritmica e melodie solo apparentemente semplici, l'album ha quindi la capacità di trasmettere una sensazione complessiva dall'entità impalpabile ma allo stesso tempo abbastanza precisa, come un sogno che non si ricorda più se non per un particolare senso di felicità che ci ha lasciato. Prendetemi pure in giro se volete, ma a me drukQs ha sempre dato l'impressione di essere stato registrato in un grande teatro ottocentesco infestato da una sorta di "fantasma dell'opera", che si aggira tra il legno ed il velluto degli eleganti palchi, per corridoi che si ripetono all'infinito un po'come le architetture in certi quadri di De Chirico. Oppure drukQs è il suono che si potrebbe udire in una soffitta incantata piena di carillon e giocattoli animati dall'aria steampunk, proprio come quella che fa da ambientazione al video di Nannou, un brano uscito sul precedente singolo Windowlicker e che secondo me ben anticipa la direzione presa da drukQs (il quale, tra l'altro, si chiude con un brano che ne richiama il nome: Nanou2). E' facile, ascoltando Strotha Tynhe, immaginarsi un pianoforte che suona da solo nella penombra di una vecchia mansarda, colpito da un raggio di sole che penetra fra le assi del solaio e illumina i granelli di polvere sospesi nell'aria.

Per dirla tutta, non manca nell'album anche qualche prodotto della discutibile ironia surreale di Aphex Twin, come l'editing schizofrenico delle voci in Afx237 V7, o il "Come on you cunt let's have some Aphex acid!" urlato nel mezzo della traccia Cock/Ver 10. Marchi di fabbrica del nostro eroe da accettare per quello che sono. D'altro canto, tracce come Aussois (13 secondi di dialogo indecifrabile fra due voci inquietanti che potrebbero ricordare i bambini del video di Come To Daddy) più che un riempitivo mi sembrano un ottimo modo per incutere un certo timore nell'ascoltatore infondendogli l'idea che, per quanto assurdi e inspiegabili certi dettagli possano sembrare, essi sono lì per un motivo, fanno parte del disegno dell'autore: l'opera privata di essi non avrebbe lo stesso significato.

I titoli scritti in un lingua brittonica indecifrabile (gallese o forse cornico) e le scarse ma curatissime illustrazioni contribuiscono a dare l'idea che l'album sia il prodotto di un luogo ed un tempo lontani ma ben precisi, sui quali solo l'ascolto può darci qualche indizio in più.

Riesco ad immaginare cosa sia accaduto a chi non ha trovato un senso a quest'album, perdendosi in dettagli che un grande numero di ulteriori ascolti avrebbe potuto smussare a favore dell'incredibile disegno complessivo. Credetemi quando vi dico che per capirne di più ci vogliono letteralmente anni.

E' chiaro che molti non sono disposti ad investire così tanto tempo nell'ascolto di un album, e un po'mi dispiace per loro.

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