Nel 1984 Brian Eno presenta a Roma ‘Crystals’, una personale giocata su effetti ottici e luminosi inscritti su superfici non immediatamente visibili ma percepibili attraverso monitors che fanno parte dell’architettura artistica dell’installazione. Come a dire i Vapor Drawings di Larry Bell, insomma, solo che “sotto” (le forme artistiche di Eno sono sempre dotate di grande spazialità) c’è la musica creata da un certo numero di nastri musicali in loop, elementi costituenti della famosa ‘ambient music’, che ogni giorno vengono fatti partire secondo tempistiche non preordinate per creare un sottofondo sempre inedito, costantemente in divenire.

Per me non è un sottofondo, anche se il volume è estremamente discreto e richiede attenzione e concentrazione, e silenzio. In effetti le sale sono come santuari, sale bianche in leggera penombra per non disturbare le installazioni artistiche, c’è un po’ di gente che cammina piano e nessuno parla.

Passo alcune ore nei locali della mostra multimediale, acquisto dischi e libri di Eno e su Eno, e a fine giornata ho la ventura di incontrarlo verso l’uscita, è passato a vedere come sta andando la faccenda. (Saprò in seguito che ha sovrainteso personalmente alla complessa installazione del materiale). Chiedo il permesso di complimentarmi, risponde gentilissimo con la sua voce pacata, è vestito molto leggermente di nero e grigio nel febbraio romano. Poche battute, non mi permetto certo di essere invasivo, gli occhi grigi hanno un guizzo quando abbraccio con un gesto la prima sala e commento: discreet music. Sorride e se ne va, c’è un auto che lo aspetta, fuori.

Ripenso spesso ai Crystals quando ascolto la musica ambient di Brian Eno, che viene fatta derivare da tante fonti (persino – erroneamente – dagli Intonarumori di Luigi Russolo) ma nasce in realtà da un’intuizione folgorante che Brian ha nel 1974, quando è più o meno bloccato a letto da un’ingessatura molto ingombrante e riceve le visite degli amici (che, ovviamente, gli portano principalmente dischi e libri). Arriva un’amica con un disco di madrigali (si dice Judy Dyble), Brian le chiede di metterlo su e conversano un po’, poi la ragazza se ne va e lui resta sul letto col disco che gira; ma il volume è bassissimo e non si sente quasi nulla, e la persona che lo accudisce è uscita, e Brian non se la sente in quel momento di alzarsi per rettificarlo.

Sarà l’ascolto forzato di quei venti minuti di musica quasi inaudibile, che il compositore si sforzerà di percepire con grande concentrazione, a dargli l’idea di una forma musicale che si fonda pienamente con l’ambiente circostante, che sia neutra nella tonalità e nel modo (né maggiore né minore), che possa essere ascoltata incidentalmente e commista ai normali rumori della vita che scorre, e con essa si mescoli. ‘Ambient music’, appunto: musica per ascensori, musica per sale d’aspetto, musica discreta sopra ogni altra (alla faccia della lounge, semplicemente anonima).

Ovviamente Eno, che notoriamente ha grande cultura classica, ben conosce la ‘musica d’arredamento’ di Satie (qualcuno ne ha fatto menzione di recente su DeBaser) e conosce gli antecedenti del suo progetto, ad esempio lo Helicopter-Quartett di Stockhausen, in cui il rumore delle pale dell’elicottero a bordo del quale sono situati i musicisti è parte integrante della composizione al pari della partitura per archi, di per sé piuttosto ‘piatta’.

Nondimeno, la ‘Discreet Music’ di oltre trenta minuti che esce nel 1975 sul primo lato di questo vinile presenta caratteristiche inedite e personalissime, ed inizia subito il dibattito: musica da ascoltare o da non ascoltare? Vinile artistico o sonorizzazione anonima e di nessun pregio musicale? Fuffa o idea geniale? Il brano è piacevolissimo all’ascolto e nessuno probabilmente mette in atto le raccomandazioni di Brian Eno, la cui autorevolezza nessuno si sogna comunque di porre in dubbio, ed il brano in parola viene ascoltato come qualunque altro, a volume normale e facendo attenzione alla tessitura sonora. Che è bellissima. Volendo ‘togliere’ (note, attenzione e valenza musicale) Eno finisce per aggiungere una forma espressiva consapevole alla tavolozza della musica di ricerca, come sembra testimoniare il nostro Amico ‘iant’, primo recensore nel 2008 di ‘Discreet Music’. Egli sceglie infatti di apprezzare la musica offerta per quello che è, senza occuparsi degli intenti del compositore e fornendo un tassello ulteriore al dibattito sempre in corso sulla fruizione dell’arte in generale e di quella cosiddetta ‘moderna’ in particolare.

La mia posizione – ma è solo un contributo – è che entrambe le scuole di percezione abbiano ragione da vendere. Se mi recassi in un museo a contemplare la spina di un roseto, potrei non percepire l’importanza dell’oggetto prima di essere messo a conoscenza che si tratta di una parte della Corona di Spine del Golgota, al che potrei magari percepire ‘improvvisamente’ un senso di ammirazione (in questo caso storica, non artistica). Molti quadri sembrano semplicemente di buona fattura prima di leggere che sono stati dipinti con la bocca o con il piede, dopo di che diventano capolavori di bravura se non di espressione. È pur vero che molte espressioni artistiche risultano invece pienamente godibili (o comunque abbastanza godibili) anche senza conoscere le circostanze dell’atto creativo e lo scopo ed il messaggio dell’artista, come testimoniano le migliaia di fruitori che affollano i luoghi artistici delle nostre città senza guide di sorta. Io credo che la conoscenza e la consapevolezza, e la comprensione, rappresentino un valore aggiunto alla fruizione dell’opera d’arte, la cui mancanza non inficia peraltro – nella maggior parte dei casi – il godimento dell’opera stessa.

Dell’intento probabilmente artistico di Eno, nonostante i presupposti, testimonia invece la composizione incisa sul secondo lato del disco, rielaborazione in tre movimenti del celebre Canone di Pachelbel secondo sfasature attentamente studiate, a differente velocità (indotta o naturale) di parti diverse della partitura originale. L’effetto avvolgente e quasi struggente della composizione è straordinario (complici le famose, 'canoniche' scale discendenti di basso continuo in Re), come il suono rallentato degli archi o quello naturale ma di una partitura rallentata, mentre le diverse parti si incastrano in un modo che non è dato capire quanto sia accuratamente studiato, ma è lecito supporre in ampia parte ‘casuale’ (sia pure nell’ambito di binari attentamente precostituiti, com’è costume di un musicista attento e scrupoloso come Eno).

Il sistema è dunque quello che Brian Eno adotterà per tanti anni, sia nelle incisioni che nelle installazioni sonore, affidando alla casualità l’effetto finale di un meccanismo sonoro studiato per adattarsi alle più diverse combinazioni. ‘Music For Airports’, ‘Thursday Afternoon’, ‘Shutov Assembly’ sono solo i titoli più noti di un filone artistico che il Nostro continuerà a coltivare nel tempo, riscuotendo un successo di pubblico che senza dubbio deve molto alla fama del compositore, ma non risulta obiettivamente facile spiegare in relazione alla poca fruibilità dell’offerta musicale ciìomplessiva . Conosco poche persone in grado di ascoltare veramente trenta minuti di ambient music, ma forse è proprio questo a dare ragione alla fine a Brian Eno, che aveva detto sin dall’inizio che non si trattava di musica da ascoltare, ma da viverci durante.

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