Molto tempo fa ho avuto occasione di percorrere parte della Francia in automobile, visitando castelli (tra cui Amboise, dimora di Leonardo), una natura meravigliosa, gente ospitale e chiese gotiche tra le più belle della cristianità. Oltre ad ottimi pasti e percorsi pigri ed affascinanti in automobile – certe volte il viaggio vale almeno quanto la meta – ricordo di aver passato ore ed ore nella meraviglia assorta e maestosa della grandiosa cattedrale di Bourges, dimentico del mondo esterno, immerso in un oceano di silenzio e di penombra e indisponibile persino ai sussurri di mia moglie, che aveva superato prima di me lo stupore e sembrava esente da quella vera e propria sindrome di Stendhal che non mi lasciava uscire nella luce del mondo e mi teneva prigioniero in un mondo assorto.

Questo è l’effetto che certe immense cattedrali possono avere sulle persone predisposte, vere e proprie macchine architettoniche progettate per implodere nell’anima di chi le percorra (ma ricordo un effetto non dissimile nella grande moschea di Siviglia).

Viaggiando in Francia non si può non prevedere una visita alla più nota cattedrale di Chartres, a cento chilometri da Parigi, meno grande di Bourges ma ricca del famoso labirinto circolare inscritto nel pavimento, in relazione al quale la tradizione cristiana – ma anche e soprattutto quella pagana ed esoterica – hanno da sempre immaginato un percorso iniziatico verso l’illuminazione che non a caso ha termine in direzione delle celebri vetrate gotiche. Ho visitato Chartres e non ne sono stato preso fino a quel punto, forse per l’eccessiva presenza di turisti e la conseguente impossibilità di fruire del locus architettonico in modo privato e dedicato (sono immune alle suggestioni religiose, soprattutto se collettive, ma non certo a quelle artistiche e trascendentali, come tutti).

Immaginate ora una meravigliosa cattedrale gotica, immersa nella penombra e squarciata a tratti dai raggi di luce provenienti dalle vetrate sapientemente brunite e misteriosamente colorate. Immaginate che la grande chiesa sia completamente vuota ed illusoriamente silenziosa, in realtà risuonante in ogni sua pietra ed in ogni sua più piccola volta di misteriose risposte sonore, progettata com’è per esplodere le frequenze alte ed implodere quelle basse, gli infrasuoni dell’organo a canne praticamente percepibili nella colonna vertebrale.

Immaginate che un violinista, dotato di grandissima tecnica ed espressione, percorra lentamente la cattedrale deserta, suonando assorto un prezioso strumento e producendo musica totalmente improvvisata, che si avvolge su se stessa e si nutre di prodigiose risonanze e di armonici inimmaginabili altrove, dell’oscurità delle navate e della cripta, della spirale magica del labirinto sul terreno e della solitudine e del silenzio che sole possono consentire la liberazione di emozioni ed espressioni così intense.

L’ascolto delle improvvisazioni e la visione di una parte del percorso del musicista (https://www.youtube.com/watch?v=WnqYTyUhLoc) svela una tecnica espressiva assolutamente sbalorditiva e priva di paragoni. La musica improvvisata da Paul Giger è di impronta ora ciclica e minimalista, ora orientale ed ancestrale, ricca di overtones e percussioni sulla cassa dello strumento e di trilli e risonanze per risvegliare l’eco nascosto nella pietra, una musica bellissima ed assorta ed assolutamente ‘privata’, se non fosse che quei suoni vengono mirabilmente catturati nella loro purezza e trasfusi nel supporto sonoro affinché noi possiamo ascoltarli nelle nostre case, come se fossimo seduti nella navata e nel coro a sentirlo suonare.

E’ chiaramente un disco che richiede concentrazione e dedizione, un viluppo sonoro che è l’opposto di quella musica ambient di cui abbiamo ragionato recentemente, eppure dell’ambiente (in senso letterale) è figlio quanto dell’improvvisazione del violinista, e della nostra visualizzazione interiore di quell’ambiente ha bisogno per essere percepito compiutamente. L’opposto esatto della ‘Discreet Music’, a ben vedere, laddove la musica si limitava a voler ‘servire’ la situazione contingente (l’attesa, la passeggiata, il relax) mentre qui è lo spazio fisico, metafisico e sonoro della cattedrale a fornire linfa alla sensibilità del musicista ed alla sua istantanea produzione musicale.

Un ascolto forse non facilissimo, certamente non consueto, eppure meraviglioso e certamente purissimo nel suo istantaneo percorso compositivo ed espressivo: ‘dal produttore al consumatore’, insomma, senza passaggi intermedi ed arrangiamenti, e senza mediazioni sonore o modificazioni che non fossero già presenti in fase di allestimento della performance. Un concerto senza pubblico, assolutamente privato per ognuno di noi, ma anche senza quella componente auto celebrativa che di tante esecuzioni è parte: una musica creata non per dimostrare qualcosa (Paul Giger aveva già mostrato al mondo la sua incredibile tecnica e sensibilità) ma per vivere ed esprimere al momento, e dipoi raccontare, un luogo ed una suggestione particolari.

Come di consueto, gli altissimi standard sonori delle produzioni ECM si rilevano parte essenziale della migliore fruizione dell’emozionante espressione artistica, ed è impressionante la resa sonora di tutti gli armonici ed i riverberi sapientemente generati in presa diretta ed in un’unica soluzione, senza prove né ripensamenti, nel giorno del solstizio d’estate del 1988 nella cattedrale di Chartres da Paul Giger. Ho eletto questo disco tra i miei preferito di sempre, per i motivi che ho confusamente cercato di esprimere sin qui, e spero che altri possano conoscere questo capolavoro e goderne.

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