Nel famoso romanzo che elaborò autonomamente, ma in tandem con Stanley Kubrick, Arthur Clarke scrive che Dave Bowman – rimasto solo nell’immensa ‘Discovery’ dopo la morte dei suoi compagni e la necessaria disattivazione di HAL 9000 – ebbe comprensibilmente un periodo di inquietudine e paura, che dopo molti tentativi superò solamente ‘trovando conforto nelle geometrie astratte di Bach, come altri prima di lui’.

Ho affrontato il mistero di Johann Sebastian Bach in molti modi, e per molti anni. L’ho ascoltato continuativamente per tutta la mia vita, l’ho suonato, l’ho sentito suonare molto e molto meglio di me. L’ho studiato: ho studiato le sue composizioni, ho studiato la sua vita, ho cercato un particolare pathos nelle sue vicende, nel suo volto, nelle circostanze delle sue creazioni. L’ho frequentato fin da ragazzo, e soprattutto l’ho sempre amato senza limiti e senza bisogno di giustificazioni, ma avrei sempre voluto capire come e perché. Perché la sua musica è assoluta? Come fa a comporre in quel modo? Perché il suo messaggio è eterno ed universale, più di quanto non accada con qualsiasi altro compositore, legato comunque ad un periodo, ad un movimento artistico, ad una particolare sensibilità ed espressione?

Alla fine, credo che Clarke abbia ragione. Bach è eterno perché è assoluto, è l’incanto del sublime rapporto tra le note, è assolutamente astratto e non descrive mai, non suggerisce alcunché. Laddove altri – grandissimi! – sono comunque l’Eroica, l’Incompiuta, la Notte sul Monte Calvo, Alexandr Nevskij, l’Inno alla Gioia, il destino che bussa e tutto il repertorio delle passioni e della vita dell’uomo, Johann Sebastian Bach è Giga, è Ciaccona, Bouree, è Aria e Badinerie, è semplicemente op. BWV e ovviamente non c’è Andante, non c’è Largo o Scherzo. Non è suggerita una chiave di lettura, non c’è stato d’animo più o meno adatto, non c’è messaggio. C’è solo la sua musica incredibile, e l’effetto che fa immancabilmente sull’ascoltatore che la accoglie dentro di sé.

Tra le opere immortali del Kapellmeister Bach sono annoverate le Suite per Violoncello solo, e non è difficile capire il perché. A differenza di altri strumenti, la diteggiatura del violoncello non consente arpeggi su molte note (almeno sei sulla chitarra, dieci per il pianoforte) il che limita fortemente le possibilità espressive dello strumento, che oltretutto non ha neppure una timbrica di intenso lirismo solista quale può vantare il violino, virtualmente sottoposto a limiti similari (in realtà la sua diteggiatura consente, ad esempio, salti di ottave e trilli che risultano poco realizzabili sul violoncello). Questo significa che il violoncellista può effettuare scale anche veloci, ma non potrà contare molto sulla polifonia e poco sul contrappunto, essendo normalmente in grado di eseguire contemporaneamente le tre sole note minime per caratterizzare un accordo.

J.S. Bach non ha a disposizione neppure gli strumenti espressivi della dissonanza, del rumore e del silenzio, che tanto significato daranno alle opere del ventesimo secolo: il Maestro assoluto del contrappunto ha qui a disposizione ‘solamente’ le scale musicali e le possibili circonvoluzioni nei limiti fisici del violoncello, che oltretutto era utilizzato nelle partiture da soli cinquant’anni ed in funzione principalmente di accompagnamento, per i motivi dianzi esaminati. Egli non solo riuscirà a comporre al massimo livello, ma anche a stressare le capacità tecniche ed espressive dello strumento, costringendo l’esecutore ad una maratona virtuosistica ma anche posturale (in questo senso parlavo di limiti fisici: la postura del violoncellista è di per sé piuttosto scomoda e richiede un gran lavoro delle spalle).

Le sei Suites per Violoncello solo (Cello Suites, 1720: BWV 1007-1012) sono rimaste praticamente sconosciute fino al 1936, quando il celebre musicista Pablo Casals le trasse da un lungo oblio e ne curò una famosa esecuzione di riferimento, e da allora hanno sempre rappresentato un punto di arrivo ed un banco di prova per i maggiori solisti di tutto il mondo. Dal momento che non esistono copie manoscritte originali che rechino indicazioni per l’esecutore, molte decisioni interpretative sono state prese di volta in volta dagli esecutori più prestigiosi (tra i quali vale la pena di menzionare Mstislav Rostropovich, Mischa Maisky e Yo-Yo Ma), con particolare riguardo agli staccati, ai tempi di esecuzione, alle arcate, rendendo talora le varie registrazioni percepibilmente dissimili tra loro.

La prima suite è la più famosa, e si ritiene anche la più ‘facile’ (!), mentre dalla quarta cominciano i problemi tecnici per lo strumentista, che culminano nella Suite No. 6. Chi ha dimestichezza con le opere di Bach sa cosa attendersi: un’opera sicuramente di grande rigore formale, grande fascino compositivo e ardite soluzioni strumentali (onde rendere il più possibile polifonico uno strumento che per sua natura lo è poco). Oltre agli aspetti più propriamente tecnici, chi ama Bach (e siamo miliardi nel mondo, credo) troverà – com’è di prammatica nelle sue composizioni – un particolare struggimento, un senso di pienezza interiore, di concentrazione e raccoglimento che il compositore seppe sempre trasfondere in ogni sua creazione, dalle sterminate opere per organo alle meravigliose suites orchestrali, fino alla musica sacra.

Io ho iniziato a scrivere immerso nel riverbero del violoncello di Rostropovich, una delle interpretazioni memorabili di queste Suites, e mi sono perso gradatamente nella spirale delle scale, nelle geometrie astratte di questo sublime Architetto, nella particolare commozione assorta che l’Arte di questo compositore regala immancabilmente a chi è disposto a farsi portare via con lei. Tanti anni fa le vidi suonare per la prima volta da Giuseppe Selmi, pochi anni prima della sua scomparsa, e non le ho mai più dimenticate. Io non so bene cosa ho scritto, so che non posso aver reso in poche parole la trascendenza e l’universalità di quest’opera, ma so che le Suites per Violoncello solo sono state scritte da un uomo benedetto, che alcuni valenti strumentisti le hanno interpretate e che esse sono a disposizione nelle sale d a concerto e negli scaffali dei nostri dischi, per regalarci ogni volta un pezzetto di quella medesima trascendenza, che si rinnova ad ogni ascolto e ci avvicina a qualcosa di migliore. Io non sono credente, ma se c’è qualcosa di più grande dell’Uomo ha sicuramente una relazione con questa Arte sublime.

Mio padre amava ascoltare queste Suites in penombra, nella sua poltrona, nell’esecuzione di Casals, ed ho imparato ad amarle fin da bambino. Ho promesso a mio figlio che andremo presto a sentirle suonare in una sala da concerto, un’esperienza emozionante ed importante per un ragazzo, e non vediamo l’ora tutti e due. Spero solo di non commuovermi davanti a lui, non so se capirebbe.

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