Il fallimento dell'italiana Moviemax ha rallentato l'arrivo in Italia di "Fury", quinto lungometraggio di David Ayer. Dopo otto mesi dall'uscita nelle sale statunitensi la Lucky Red ha distribuito la pellicola all'inizio di giugno.

Un budget importante (circa 70 milioni di dollari) e la concorrenza di titoli più sponsorizzati e più "vendibili" (su tutti il nuovo "Mad Max" di George Miller). Ecco che le premesse per un botteghino scarso c'erano tutte. Inaspettatamente però, il pubblico ha risposto, gli incassi hanno triplicato la spesa iniziale e "Fury" si è ritagliato un suo piccolo spazio nel 2015 cinematografico.

David Ayer aveva già in passato fatto intravedere buone cose, dall'esordio "Harsh Times" al discreto noir "La notte non aspetta". Con "Fury", Ayer torna a quel mondo militare di cui ha fatto parte in passato, portando sul grande schermo un nuovo capitolo filmico sul secondo conflitto mondiale. La guerra sta volgendo al termine e le forze Alleate penetrano sempre più internamente nella deflagrata Germania nazista. In tutto ciò è fondamentale l'apporto dei mezzi corazzati e "Fury" è uno di questi, comandato dal sergente "Wardaddy" (Brad Pitt). Al suo fianco un manipolo di fedeli, nell'ultima fase della guerra.

Privo di una vera e propria trama, "Fury" è quello che si definirebbe un "war movie vecchia maniera". Un film solido, con un ritmo studiato per non essere esclusivamente frenetico e "action" ma anche "classico", in grado di rendere quell'idea di magniloquenza che contraddistingue il genere. Proprio l'alternanza di fasi diverse nell'economia della pellicola, è una delle buone trovate di Ayer: il regista mescola sapientemente lunghe sequenze di combattimento quasi in stile videoludico (chi ha detto COD?) e momenti di maggior "riflessione" e ristagno dell'azione. Nelle sequenze "action" si respira un realismo e una messa in scena che ricordano fin da subito il capolavoro televisivo "Band of Brothers", a sua volta debitore a "Salvate il soldato Ryan" (ma decisamente più riuscito sul piano concettuale).

Un comparto tecnico di tutto rispetto che però viene penalizzato da una sceneggiatura (curata dallo stesso Ayer) zoppicante. Ayer riesce a dribblare egregiamente lo scontro binomiale americani buoni/tedeschi cattivi, ma cade in un'altra trappola di scrittura. Se i dialoghi simil tarantiniani riescono anche a strappare qualche sorriso, i personaggi principali sono fin troppo stereotipati: dall'ultra religioso "Bibbia" (Shia LaBeouf), al pazzoide ma dall'animo buono Grady, dal messicano emarginato al giovanissimo e inesperto Norman, il cui rapporto con "Wardaddy" diventerà troppo simbolicamente quello di formazione/educazione di padre e figlio. Anche il finale si inserisce nella scatola delle "cose già viste" e ha quella puzza di patriottismo ed eroismo forzato che oltre ad essere inverosimile, è anche un tantinello tirato per le lunghe.

L'opera quinta di David Ayer è una commistione di cose buone e meno buone. Un film crudo e ottimamente girato e fotografato che purtroppo si perde nelle sottigliezze di una sceneggiatura non all'altezza del comparto tecnico. Siamo comunque dinanzi ad un prodotto di valore, un "war movie" di rilievo, tra i migliori visti al cinema negli ultimi anni.

Carico i commenti... con calma