Il lustro appena trascorso sarà probabilmente storicizzato tra qualche decennio, nel bene o nel male, come l’epoca del revivalismo neopsichedelico. Da un lato si è assistito infatti all’affermarsi di sonorità mimetiche della grande stagione della psichedelia storica degli anni Sessanta, dall’altro alla ripresa di certe declinazioni lisergiche e sognanti della galassia new wave da parte di gruppi dream pop che sembrano moltiplicarsi a ritmi esponenziali.

In questo generale clima revivalistico, che volendo potremmo correlare ad analoghi fenomeni occorsi in altri ambiti musicali (post-punk, garage, synth, persino funk e disco), va ad inserirsi anche la rinascita di quell’effimera realtà musicale a cavallo fra noise e psichedelia che infuriò in Inghilterra nei primissimi anni Novanta: lo shoegaze.

Soffocato dall’avanzata del britpop e dei postumi del grunge, il genere continuò nondimeno ad esercitare un’influenza sotterranea su una vasta fetta del panorama musicale, ma anche i suoi pochi incalliti sostenitori finirono con lo stemperare il sound originario (per la verità, già in partenza piuttosto eterogeneo), incorporandolo a matrici di altra provenienza.

Avevamo così gruppi noise con elementi shoegaze (Swirlies, Luminous Orange, Autolux), dream pop con elementi shoegaze (Asobi Seksu, gli ultimi Blonde Redhead), ambient con elementi shoegaze (Lovesliescrushing, Ulrich Schnauss), psych con elementi shoegaze (Brian Jonestown Massacre), ma non gruppi shoegaze in toto, o comunque solo casi isolati.

Negli ultimi anni invece si sta assistendo ad una vera e propria rifioritura del genere, e non mi riferisco ai gruppi generalmente etichettati sotto l’orribile dicitura “Nu Gaze”, come Deerhunter, A Place To Bury Strangers o Horrors, che sinceramente mi sembrano incatalogabili e solamente influenzati dal movimento in questione, ma a tutta una caterva di piccoli gruppi agli esordi accomunati dalla volontà di riprodurre in maniera quasi filologica i dolci frastuoni della prima ondata. Certo, la maggior parte di queste band non brilla certo per originalità e si limita ad un’imitazione pedissequa di una formula fissata vent’anni fa, ma la sensazione è finalmente quella di sentire dello shoegaze, e nient’altro.

L’album d’esordio dei Cheatahs, quartetto londinese con all’attivo già una raccolta di EP, rientra sì e no nel calderone appena descritto. Esaurita la breve introduzione rumoristica, bastano pochi istanti per venire catapultati in un vortice sonoro senza soluzione di continuità della durata di tre quarti d’ora, in cui distorsioni e riverberi di chitarre stratificate creano un amalgama fluido e uniforme, di mirabile omogeneità, che procede ininterrotto tra espansioni, contrazioni e improvvisi squarci luminosi, con la viscosità del magma bollente. È evidente il tentativo (per altro riuscito come in pochi altri casi) di catturare la misteriosa alchimia sonora alla base del capolavoro shoegaze Loveless dei My Bloody Valentine. La struttura dei brani è però in genere più movimentata e ritmata, il che accosta i Cheatahs maggiormente a gruppi come Ride o Swervedriver.

Dunque la tendenza all’imitazione c’è eccome, non si notano particolari sperimentalismi o fusioni inedite e personali, eppure nel complesso il risultato è notevole e si leva una spanna al di sopra di molti esordi avviati con le medesime premesse. Il materiale della tradizione non è infatti semplicemente preso come modello da copiare, ma si cerca di farlo proprio, di metabolizzarlo in maniera consapevole. E ci sono anche da considerare la solidità di scrittura e l’eccezionale resa del suono.

Ovviamente il ventaglio dei riferimenti non si limita ai padri fondatori dello shoegaze, c’è anche molto noise rock (in particolare Dinosaur Jr., ad esempio in Northern Exposure), ma le due componenti sono perfettamente compenetrate e anzi si esaltano a vicenda, dando all’impasto quel quid in più. Tutti i brani sono caratterizzati da spropositati muri di feedback avvolgenti e frastornanti, con momenti più distesi e dilatati (Mission Creep, IV, Fall) e altri più energici e incalzanti (Geographer, Leave To Remain, Cut The Grass, Kenworth). Unico pezzo relativamente debole dell’album è The Swan, estratto direttamente dalla collezione di EP precedente, che in effetti mostra una maggiore immaturità.

I Cheatahs hanno già pubblicato altri due EP, Sunne e lo splendido Murasaki, la cui title track (che significa “viola” in giapponese e si riferisce al cognome della grande poetessa medievale autrice del Genji Monogatari) è cantata interamente in giapponese, evidentemente in omaggio alla florida scena shoegaze che ha visto protagonista il paese del Sol Levante in questi ultimi anni.

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