Magmatico e straripante, labirintico, angoscioso, straniante, Possession di Andrzej Zulawski è una di quelle oscure perle della cinematografia mondiale ingiustamente misconosciute o dimenticate dai più, un vero gioiello dai riflessi costantemente cangianti che ambisce come ben pochi film a riassumere in sé tutti gli interrogativi più urgenti dell’umana esistenza.

In una desolata Berlino est, dipinta da rapidi movimenti di macchina che assecondano le frenetiche traiettorie dei personaggi, si consumano l’angosciante discesa nella disperazione dell’essere e lo svuotamento emotivo e morale di una donna combattuta tra il dubbio e la fede, cui una bellissima ed immensa Isabelle Adjani dona una grazia e una fragilità dolenti uniche. Oppressa, attanagliata, dilacerata da un oscuro male dell’animo, la cinepresa la viviseziona spietatamente, ne scruta e registra il soffocante dolore con primissimi piani che tolgono il fiato.

È la lotta tra due istanze inconciliabili, eppure entrambe necessarie, che come due sorelle Anna vede convivere in sé e nel mondo, a dibattersi in lei dilaniandole l’anima: da un lato la Fede, il vagheggiamento di un ordine razionale superiore, dall’altro la Sorte, il riconoscimento disincantato dell’arida insensatezza dell’universo. Esasperata da questo scontro irrisolvibile tra Fede e Sorte, eppure alla ricerca di una terza, impraticabile via che permetta infine di penetrare acutamente la realtà, di radicarvisi senza per questo doverla deformare o surrogare, Anna finisce col rimanere prosciugata di ogni senso vitale, perdendo ogni misura etica e principio razionale. E finisce anche col perdere la Fede, letteralmente con uno sconvolgente aborto spontaneo, perdendo così anche la possibilità di trovare un senso in un universo dominato dal Caso.

In tutto il film regnano infatti il caos, la crisi delle meschinità che danno certezza aiutando ad imbrigliare in un’impalcatura precaria l’informe materia dell’essere, la nevrosi e l’isteria, gli spasmi incontrollati e la catatonia, l’emergere del disgusto e della ripugnanza di sé, il vagare vorticoso senza una meta in un mondo il cui unico cardine certo si rivela essere il predominio incontrastato del Male. Il Bene non è che mero riflettere sul Male, nell’inane tentativo di comprenderlo e porvi rimedio, quando è invece il Male stesso a divenire dipendenza, bisogno impellente, necessità senza la quale è impossibile esistere.

E proprio dall’aborto della Fede e dall’avanzare del dubbio in lei si genererà l’incarnazione del principio metafisico stesso del Male cosmico, simboleggiato dal repellente viscidume della creatura dell’appartamento. Con questa Anna intraprenderà una morbosa relazione simbiotica trovando appagamento al suo bisogno carnale e spirituale e allo stesso tempo prendendosene cura come di un figlio a tutti gli effetti: il Male, unico appiglio cui aggrapparsi nel caos del mondo, diventerà così la sua Fede. Giunta al termine di un aberrante processo di progressiva maturazione, tale creatura si rivelerà essere infine un doppione di Mark, marito di Anna e personaggio focale del film, e in chiusura vi si alluderà addirittura come ad una sorta di Anticristo, premonendo l’ombra di un’apocalisse atomica universale.

Sotto l’aspetto di un film proteiforme e solo faticosamente classificabile come drammatico/orrorifico (ma con ampie contaminazioni nonsense e persino un certo umorismo grottesco e surreale) si sviluppa dunque una profonda e complessa riflessione su Dio, il Male, la libertà e l’esistenza, facendo leva su un visionario isterismo stilistico condotto all’insegna dell’eccesso e dell’esasperazione del mezzo. La struttura del film, dispersiva, ridondante e proprio per questo affascinante e al contempo funzionale ai propri scopi, ha come cuore e centro teorico-programmatico lo straziante monologo in cui Anna, guardando in macchina, esplicita la dimensione filosofica del film, che in tutta la prima parte era rimasta in filigrana.

Strabilianti le soluzioni registiche dalle angolature deformanti e inusuali, che producono effetti di grottesco straniamento e allucinazione, così come la massima cura della messa in scena e della fotografia, in cui predominano tinte fredde virate al grigio-blu. In effetti il colore dominante dell’intero film è in assoluto il blu, esplorato in tutte le sue sfumature e associato in particolare all’eburneo candore dell’incarnato di Anna, Madonna del dolore che viene così a richiamare proprio l’iconografia della Vergine Maria, di cui in sostanza non rappresenta altro che un corrispettivo negativo: è per suo tramite infatti che il principio metafisico del Male, l’Anticristo, si fa carne, e in più momenti si accenna alla presenza di Dio in lei.

Altro motivo centrale è poi quello del doppione, del doppelgänger, per cui nel finale Anna e Mark saranno sostituiti dai rispettivi doppi complementari, l’immacolata maestra di scuola dagli occhi di smeraldo e il malvagio gemello-figlio dal sorriso beffardo: elemento che va ad accrescere ulteriormente il fascino e la complessità di un’opera che offre svariati livelli d’interpretazione (metafisico, esistenziale, psicologico, storico-politico), apparendo quasi conclusiva, riassuntiva di tutto ciò di cui il cinema può e potrà mai parlare, e conservandosi però refrattaria a qualsiasi tentativo di sviscerare in modo univoco e assolutamente soddisfacente tutta l’eterogenea congerie delle sue componenti.

Possession è altresì un susseguirsi ininterrotto di scene dal devastante impatto visionario e dalla forza esasperata. I furiosi scontri tra Sam Neill e Isabelle Adjani sono qualcosa di magistrale sul piano di recitazione, scrittura e coreografia; la scena della metropolitana è di un delirio e di un’angoscia difficilmente eguagliabili; l’impotenza degli sguardi rivolti da Anna al crocifisso, da cui non riceve alcuna risposta, e la balbettante sconnessione del suo monologo stringono il cuore; la scena della lezione di danza riesce a suscitare un senso di insopportabile disagio e oppressione dove non dovrebbe esserci; straziante è anche la morte di Anna e Mark in cima alla scala a chiocciola, e il finale mette la pelle d’oca: il bambino preveggente e “luccicante” che corre a rifugiarsi nella vasca avvertendo di non aprire la porta, mentre le luci si sovraespongono facendo brillare gli occhi verdi dell’alter ego benefico di Anna, la sagoma dell’Anticristo che traspare dal vetro della porta alle sue spalle, i boati dell’imminente deflagrazione della Terza Guerra Mondiale che crescono in sottofondo.

L’unica pecca del film sta a mio avviso in alcuni personaggi di contorno ed episodi di sapore umoristico in cui l’eccesso è fine a sé stesso e può perciò risultare irritante (vedi Margit e soprattutto lo zio zen Heinrich), ma si tratta di una leggera scalfittura ampiamente nascosta dal bagliore della gemma. Vergognoso il trattamento riservato a un capolavoro simile nelle varie versioni tagliate, rimontate e riscritte per effetto di una miope e quanto mai ottusa censura, compresa quella italiana di 80 min, in cui lo svilimento e la banalizzazione dell’originale a semplice storia di possessione demoniaca fanno più pena che rabbia.

9

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