La quarta dimensione...che cos'è la quarta dimensione? Il tempo... o l'inferno?? Qualunque persona sana di mente, dopo le conquiste della fisica novecentesca, vi risponderà: il tempo. Ma qui i sani di mente lasciano il tempo che trovano! E allora, di nuovo: il tempo...o l'inferno?? Peter Tagtgren (dove razzo è finito l'umlaut?), leader e fondatore degli Hypocrisy, ha le idee molto chiare al riguardo... molto chiare.

Siamo nei primi mesi del 1994 quando iniziano le registrazioni del terzo disco della band; i primi due album del gruppo svedese erano caratterizzati da un suono fin troppo monocorde: un Death Metal grezzo ed essenziale suonato a rotta di collo, con quell'impronta "crushing" tipicamente scandinava che contraddistingue gruppi come Entombed e Dismember. Tagtgren, però, non è per nulla soddisfatto di quanto prodotto fino a quel momento; anche perché vuole e deve per forza confrontarsi coi mostri sacri del genere che hanno pubblicato, negli Stati Uniti dei primi anni Novanta, autentiche pietre miliari. Fin troppo facile citare i Death di "Human", i Morbid Angel di "Covenant" e gli Obituary di "The End Complete"... e ora facciamo tutti un minuto buono di silenzio, rabbrividendo per la pUtenza di dischi così superlativi.

E se si deve cambiare, stavolta è la volta buona: perché Masse Broberg se n'è andato, e Peter, oltre a imbracciare la chitarra, si incarica anche di sostituirlo alla "voce". E'l'occasione per imprimere una svolta, pur non dimentichi del passato.

Il nuovo lavoro viene ancora una volta pubblicato dalla label Nuclear Blast; in quegli anni l'etichetta tedesca era sinonimo di enorme qualità musicale, con particolare riferimento alle produzioni di Death Metal più feroce e cruento. Categoria musicale, tuttavia, che ai nostri comincia a stare stretta. Proprio da questo disco, infatti, gli Hypocrisy introducono elementi melodici in una proposta sonora che resta comunque una mazzata sui ciccioli. E siamo nel'94: l'anno prima era venuto alla luce "Heartwork" dei grandi Carcass, l'anno dopo saremmo stati beneficiati dei capolavori assoluti "Slaughter of the Soul" e "The Gallery"... non un bruttissimo momento per inscriversi, seppur solo marginalmente, nella galassia del Death (per antonomasia) svedese. La transizione che definisce quest'album ha sfiorato anche i testi, che presentano ancora le stronzate sataniche degli esordi, cui però si aggiungono riflessioni -piuttosto malate- sulla morte e il male; già dal successivo "Abducted", inoltre, Tagtgren e i suoi vireranno, seppur gradualmente, verso lidi sci-fi. Ma concentriamoci sull'opera, sì?

Guardate la copertina: un qualcosa di ambiguo, di perverso, che sembra volersi legare al titolo stesso dell'opera: la quarta dimensione, ignota, che quindi fa paura. Una paura sottilmente malata: un uomo seduto su una sedia girevole, come quella usata dai barbieri (e qui ogni riferimento a lamette e sangue non è casuale). La cornice è una stanza vuota dove una pallida e fredda luce color arancio dà un senso claustrofobico al tutto; l'umano senziente, ma potrebbe anche trattarsi di un cadavere, è completamente avvolto in una sorta di sudario di materiale plastico.Non poteva iniziare meglio il disco; perché ci sono dischi, come questo, che hanno il loro incipit proprio dalla copertina. E quando venite a sapere che quella povera creatura è il bassista Mikael Hedlund.....

L'album si apre con la minacciosa "Apocalypse", sorretta da tastiere che creano un muro sonoro agghiacciante, freddo e opprimente, come se dei Black Sabbath catacombali incontrassero sulla loro via verso la porta dell'Inferno i Type O Negative solenni e maligni dei primi dischi. Un mid-tempo dalle movenze Doom di una pesantezza inaudita.

In generale, tutto il disco è un continuo alternarsi di esplosioni tipicamente Death, in primis "Reborn" e "Orgy in Blood", suonate con un impeto deragliante, sorrette dal growl abissale di Peter, influenzato dal Brutal death di stampo, ancora, americano, e di brani più controllati, ragionati, ma non per questo meno... devastanti. E tuttavia, di tanto in tanto, tra una spruzzatina melodica e una Doom, si finisce anche nel lago grigio della malinconia: ascoltare "Reincarnation" per credere. Si arriva in questo modo, a corto di fiato e di speranza, a "The Fourth Dimension", posta in chiusura di disco: brano lento, paludoso, pachidermico, che ti schiaccia e ti frantuma. GLACIALMENTE. Brano di cui gli Hypocrisy si ricorderanno nel 2001, quando torneranno a registrarla imbottendola delle sopravvenute influenze sinfoniche: influenze già presenti nell'angosciante e sconsolato finale "The Arrival of the Demons".

Un CAPOLAVORO che marca una transizione decisiva, un'opera capace talvolta di ricordarmi i Suffocation, talaltra perfino i primi Tristania... personalmente, il loro apice.

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