Che bello rimanere affascinati da un artista; anche senza folgorazioni, senza passioni repentine. La fascinazione, per come la intendo io, è qualcosa di più sottile, è un'attrazione che spesso nasce da lontano, da un percorso più lungo e complesso, uno stimolo che induce ad approfondire, guardare l'oggetto del proprio interessamento con un'attenzione particolare, cercando di cogliere bene i dettagli e le sfumature, di capire il perchè prima di tutto. Patrick Wolf: singer/songwriter, polistrumentista, londinese, classe 1983, questo è quello che conta, staccando via tutta una serie di inutili etichettine critico/commerciali di cui proprio non so che farmene. Un cantautore quindi e, come già dissi in passato, trovare artisti "giovani" che si presentano come tali e che riescono a colpirmi positivamente non è affatto semplice, poi c'è la questione dell'immagine, le sensazioni "a pelle", la superficialità: troppa "patina" forse? Un po' troppo fighetto per i miei gusti? Detto così suona veramente male, mi fa sembrare anche più fighetto di Patrick Wolf stesso ma tant'è, tale è il prezzo della schiettezza. Insomma, complessivamente sentivo di avere più divergenze che affinità con questo artista, però, eh, però...

Lui è di origini irlandesi, e in quest'album si sente tantissimo, è un tripudio di suggestioni celtiche, una folk-opera arricchita dalle tecnologie moderne, un prodotto di assoluta originalità ed alto livello. E allora perchè nasconderlo dico io, perchè questa deleteria ostentazione del nero? Io questa copertina la odio, senza mezzi termini: sfondo nero, maglietta nera, capelli di un vivido rosso fuoco tinti di nero, pettinatura simil-emo; non ne ha proprio azzeccata una il carissimo Paddy, "Wind In The Wires" avrebbe meritato un "volto" assai migliore, e ci sarebbero stati migliaia di spunti da sfuttare, qualcosa che si sposasse veramente con l'effettiva proposta musicale, colori notturni ma vividi e cangianti, la spenta acromaticità di questa copertina rende un pessimo servizio in primis all'album stesso, e poi anche all'ascoltatore. Finora ho parlato più che altro di me e delle mie elucubrazioni estetiche, direi che può bastare, anche perchè per il resto Patrick Wolf, in modo particolare in questo album, ha un fascino veramente non comune: melodie e arrangiamenti, queste cose si notano subito, ma non solo, c'è anche una vocalità magnetica e teatrale, da perfetto "figlioccio" di D. Bowie, e soprattutto un songwriting di livello veramente notevole. Questo è un aspetto su cui vale veramente la pena di soffermarsi approfonditamente, una penna così elegante ed efficace è veramente merce rara al giorno d'oggi: metafore, immagini vivide ed affascinanti per descrivere i suoi tormenti e stati d'animo, potrei citarne molte, non lo faccio; basti sapere che sono un mezzo come un altro per esternare un animo pieno di cicatrici: si avverte chiaramente il disagio, l'estraneità, il dolore per quelle che sono le grettezze e le meschinità della "vita reale", in "The Libertine" c'è la ribellione, in "Ghost Song" e "This Weather" introspezione ed esistenzialismo, "Wind In The Wires" è un trionfo di immagini: il mare, il cielo, l'elettricità, si cerca la Bellezza, qualcosa di più alto anche nello squallore e nella tristezza, nell'estrema difficoltà di essere sè stessi in una società schematica e omologata.

Ma c'è anche un infaticabile e continua ricerca di una propria dimensione, di una strada da seguire, di un posto a cui si sente di appartenere veramente; "To strive, to seek, to find and not to yield". "Teingmouth" ne è l'esempio più luminoso e proteso ad un idelistico orizzonte, ma questo percorso passa inevitabilmente attraverso l'oscurità e il dolore, "The Railway House" lo dice molto chiaramente, e il tragitto è tutt'altro che chiaro e delineato, come ribadisce "The Gypsy King". Ho parlato pochissimo della musica, e ci sarebbe tanto da dire anche per quanto riguarda questo aspetto, tuttavia basti sapere che "Wind In The Wires" è uno spettacolo teatrale studiato nei minimi particolari; uno spettacolo con un unico attore, protagonista e antagonista al tempo stesso, con "Tristan" viene affrontato e dichiarato apertamente anche questo aspetto. La più grande forza di questo album è proprio la sua continua riproposizione di dualismi su vari livelli: folk-elettronica, musica-testi, fragilità-determinazione e, soprattutto, forma-sostanza: entrambe hanno pari diritti e dignità, entrambe sono egualmente curate. Questo album mi riporta alla mente "Barbara Allen", celeberrima folk ballad britannica: il simbolismo della rosa e del rovo che si intrecciano in un tutt'uno, in un nodo d'amore. A tal proposito, forse il testo più rappresentativo di tutta l'opera è quello della ghost track "The Towerns": "It's a wild stretch of land / such a sad place to be / when the night comes heavy down / and the sands turn to sea / many saints have lost their love / many pilgrims died unseen / in that wild stretch of land / in that fire to be free"


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