Mi piacerebbe che gli Iron Maiden prendessero coscienza di due cose: la prima è che la maggior durata di un album non lo fa diventare automaticamente più bello, e la seconda è che un cantante non ha bisogno di raggiungere note più alte per essere considerato bravo.
Se il prossimo album venisse scritto tenendo conto di queste due "regole" probabilmente avremmo per le mani un piccolo capolavoro, ma "The book of souls" non è ancora la volta buona.

Nelle ultime 3 release abbiamo assistito ad un allungamento progressivo della durata dei loro lavori: "A matter of life and death" era lungo, di non facile ascolto ma comunque pieno di momenti indubbiamente interessanti, "The final frontier" iniziava ad allungare la durata dei brani più "artificialmente" ripetendo refrain e ritornelli più e più volte, e adesso questo "The book of souls" è addirittura un doppio album.... cosa dobbiamo aspettarci?

Siamo di fronte ad un nuovo album degli Iron Maiden della nuova era (dal ritorno di Bruce in poi per intenderci), né più né meno, e questo dovrebbe bastare a chi li conosce a descriverlo.

L'apertura è una delle migliori, con due pezzi che hanno un tiro eccezionale: "If eternity should fail" è uno dei pezzi più belli degli ultimi 15 anni con un ritornello trascinante, un Dickinson in gran forma e una parte strumentale quasi insolita per la vergine di ferro, mentre il singolo "Speed of light" è bello, veloce, facile da ricordare e da cantare: dal vivo farà sicuramente faville, e forse anche uno dei pezzi che probabilmente ascolterete di più.

Da qui in poi vale ciò di cui parlavo prima: brani che hanno belle idee, bei giri strumentali e vocali ma che però renderebbero decisamente meglio se fossero tagliati e ridotti in modo da mantenerne solo i punti salienti, evitando così di farli divenire dei veri e propri "mattoni", difficili da ascoltare fino alla fine e spesso ripetitivi. "The red and the black" è l'emblema di questa filosofia: un brano di 13 minuti e mezzo con un assolo di basso che fa da intro e outro ma che è completamente fuori contesto, una pre-strofa che non si ripeterà mai più durante il pezzo (ma che ci sta a fare ?), infinite frasi chitarristiche incollate e piazzate una dopo l'altra senza troppa coerenza, strofe lunghe e ripetute più volte, e una serie di ooh-ooh-ooh che alla lunga stancano un pò. Peccato perché il ritornello è bello e sono sicuro che, togliendo ciò che è di troppo, ci sarebbero state abbastanza idee per fare una bella canzone in pieno Maiden-style nonostante una durata più che dimezzata.

L'altro "problema" è, mi spiace dirlo, il fatto che molti pezzi costringono il buon Bruce a cantare note troppo alte; il problema non è che non ce la fa, ma questo "esercizio di stile" mette in evidenza tutti i limiti della voce di colui che fu la "air raid siren", ma che oggi ha corde vocali 30 anni più vecchie. Nei brani in cui non si tende a questo obiettivo i risultati sono molto buoni, come in "Tears of a clown" e "The man of sorrow", che sembrano usciti da qualcosa dei tempi di "The chemical wedding" e che suonano molto più moderni ed attuali del resto dell'album, e soprattutto hanno linee vocali che, senza voler arrivare a toccare gli ultrasuoni, permettono a Dickinson di esprimersi al meglio.

Ascoltate l'intro di "When the river runs deep" e provate a non darmi ragione! Peccato per questo inciampo perché dopo questi inutili acuti il pezzo scorre che è una meraviglia ricordando un po' i ritmi di "Man on the edge" ma con un ritornello decisamente più ficcante. Due parole anche sulla lunghissima "Empire of the cloud", ultima traccia che con i suoi oltre 18 minuti sta lì quasi a ricordarci che la lunghezza dei brani è parte integrante di questo "The Book of souls"; scritta da Bruce Dickinson in persona, che ritroviamo anche nell'insolita veste di pianista, è una mini suite decisamente ispirata nella prima parte mentre perde un po' di mordente nella seconda a causa di parti strumentali a mio avviso troppo prolisse. Anche qui, sul finale, Dickinson cerca di strizzare la sua ugola fino all'inverosimile, causando un effetto "strozzatura" che non rende per nulla giustizia alla sua bellissima voce.

In conlusione il mio giudizio in merito a questo "The book of souls" ricalca per molti versi quello che avevo dato a "The final frontier", pur ritenendolo qualitativamente superiore rispetto al suo predecessore: è un album troppo lungo e pesante da ascoltare, e sarebbe bastato mentenere solo le parti migliori dei pezzi riducendone la durata per renderlo molto più godibile, perché se è vero che sono 5 anni che non ascoltiamo nulla di nuovo, non è necessario darci in pasto tutto ciò che è stato scritto tra un album e l'altro cercando di incastrarlo a forza nel nuovo lavoro.

Detto ciò gli Iron Maiden non hanno di certo bisogno di giudizi, perché sono certo che dal vivo sapranno conquistarci come hanno sempre fatto, e saremo tutti là a cantare gli oooh-oooh-oooh di "The red and the black" come se niente fosse, aspettando di cantare subito dopo "The trooper" e "Hallowed be thy name".

UP THE IRONS !!!


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