Dovevo avere quattordici anni quando, tra i miei amici, i Pink Floyd andavano alla grande, soprattutto Ummagumma e il disco della mucca.

Di Syd Barrett, a quel tempo, nessuno parlava mai. E “Piper” l'aveva sentito solo Orsetto, il mio miglior amico, durante una vacanza estiva in Sardegna, dandone poi, al ritorno, un giudizio inequivocabile, ovvero:”è una assoluta schifezza”.

Orsetto era quello che dettava la linea e che, cosa ancor più importante, essendo di famiglia piuttosto benestante, comprava i dischi. Che noi mica andavamo in Sardegna, oh no, proprio no. Noi andavamo a Marina di Ravenna a mangiare la zuppa di pesce in spiaggia. E dischi non ne compravamo mai. Massimo, massimo qualche cassetta.

Si, Orsetto era il capo. E, in fondo, lo meritava. Non era forse stato lui a farci passare da Celentano ai Floyd? Il suo giudizio su “Piper” quindi era non solo autorevole, ma indiscutibile.

Ci fu poi un bel giorno in cui il caso, sotto forma di sgangherato negozietto di materiali elettrici, avrebbe anche potuto cambiare le cose. In quel loculo angusto c'era, strano a dirsi, un reparto musica, consistente in due scatolucce colme di audiocassette pirata, dove scovai un misterioso reperto floydiano: “Masters of rock”, compilation di 45 giri incisi perlopiù durante lo splendente regno barrettiano.

Corsi a casa per ascoltare la cassetta col mio registratore mono (che solo Orsetto, ovviamente, aveva un impianto stereo) e il suono gracchiante che ne uscì non fu certo una epifania...cos'erano quelle strane nenie, quelle voci sospese, quei suoni scombiccherati? Una assoluta schifezza, ovvio. Orsetto non si era sbagliato.

L'epifania giunse qualche anno dopo, aiutata da alcune circostanze: l'arrivo del punk, l'ampliamento dei nostri gusti musicali, con Orsetto che divenne ministro del kraut rock e io che contrabbandavo rock decadente, Bowie e Velvet soprattutto.

I Floyd vennero ripudiati, salvo “Ummagumma” parte live, con quell'urlo in “Careful with that axe eugene” e il caos che si risolve nel finale celeste di “A saucefurl of secrets”. Tutto il resto era diventato fuffa.

Poi c'era un libro, letto qualche anno prima senza capirne quasi nulla. Era una specie di enciclopedia ardente del rock alieno, immaginifica e molto anni 70. Fu li che scovai per la prima volta certi nomi favolosi oltre ai titoli di dischi introvabili che avrei ascoltato solo dopo molto tempo. Uno dei nomi, ovviamente, era quello di Barrett.

Ma soprattutto in quel libro c'era una citazione del testo di “Lucifer Sam”, con una frase “quel gatto ha qualcosa che non riesco a spiegare”che, non so perché, mi colpì moltissimo. Chissà, forse c'era una risonanza con il primo De Gregori e con la sua Alice. O forse c'entrava una fanciulla bellissima e gattofila, che allora torturava i miei sogni e non solo i miei.

Fatto sta che quella frase lottava con il ricordo di quella cassettina, sparita nel frattempo chissà dove. E alla fine vinse la frase. E comprai “Piper”, iniziando l'ascolto direttamente dalla traccia due, quella che parlava, e parla, di quel benedetto gatto.

Avete mai amato una donna magica? E, se si, l'avete mai vista insieme a un gatto? E non vi sono sono sembrati la parte destra e la parte sinistra del mistero? E' di questo che parla Syd, aggiungendo atmosfere sinistre e giochi di parole e spalmando il tutto su un qualcosa che sta tra un rhitm'n'blues tirato e una sigla televisiva da telefilm per ragazzi. Niente male come inizio.

Ma chi era Syd barrett?

Prendo a prestito tre immagin (tre lampi) dal libro di Rob Chapman, insigne barrettologo: Syd Barrett camminava balzellando, Syd Barrett aveva occhi da furetto e, come d'incanto, appariva all'improvviso, quasi fosse un essere fatato.

Si, lo so, siamo già nel mito. E la cosa non mi dispiace. Perchè questa immagine favolosa combacia perfettamente con la magia delle sue prime canzoni. E allora quei balzelli e quegli occhi me li prendo per iniziare il viaggio.

E mi prendo, già che ci sono, anche un frullatore e un caleidoscopio. Gli faccio passare in mezzo qualche filastrocca, qualche illustrazione da libro per l'infanzia e molta dell'ingenuità di quegli anni. Ed ecco saltar fuori delle canzoncine che assomigliano a quelle sui trichechi e sui campi di fragole, solo un pochino più folli e stralunate. D'altronde che canzoni potrebbe mai scrivere un essere fatato?

Ma oltre alle canzoncine c'era dell'altro. Che il nostro, insieme ai suoi scudieri, era un corriere cosmico e nei concerti amava lanciarsi, in lunghi e spericolati brani strumentali che si coagulavano in un suono ora potente, ora capriccioso. Una cosa mai sentita fino ad allora in ambito rock. Che se le canzoncine avevano una parentela coi campi di fragole e con i trichechi, qui si esplorava un territorio del tutto nuovo, senza avere nè bussola, nè mappa.

Da dove venivano quel coraggio e quell'attitudine? Syd Barrett era un tipo curioso e dalle antenne ben dritte. Pittore ed ex studente della scuola d'arte, aveva il gusto per la sperimentazione e una specie di innata fiducia per l'istinto e per la spontaneità. Da un certo Keith Rowe, chitarrista dell'ensemble free jazz AMM, imparò ad allontanarsi dalla tecnica e a torturare la chitarra con gli oggetti più disparati per ottenere straordinari effetti slide. Si innamorò dei light show e dell'idea che luci e musica potessero rincorrersi in un viaggio sensoriale e gareggiare in libertà inchinandosi alla sinestesia. Fu uno dei primi ad usare l'echorec, un aggeggio che creava echi e riverberi, producendo arabeschi e spirali di suono. E poi, certo, l'acido lisergico, sostanza espansiva e trascendente.

Piper si apre con un brano di eccezionale potenza, “Astronomy domine”, dove un estatico tono in crescendo è grattugiato dalla deragliante chitarra di Syd e le parole raccontano, con una voce che sembra distante anni luce, il viaggio spaziale nella sinestesia, dove tutto si confonde e pare magico, anch se non viene tralasciato un richiamo finale alla paura.

C'è poi” Interstellar Overdrive”, che riprende in studio le scorribande cosmiche dei concerti, in un modo inevitabilmente un po' soffocato, ma comunque eccezionale. Ed è qualcosa che non si può nemmeno tentare di raccontare.

Ci sono poi quelle canzoni a cui accennavamo all'inizio, meravigliosamente fragili e stralunate, che sostenute da uno sperimentalismo bambinesco, raccontano di spaventapasseri, gnomi, gatti, biciclette, tate, viaggi lisergici, in un modo talmente fresco che a tanti anni di distanza non han perso nulla del loro fascino.

Quindi grazia pop, suono potente e espansivo, semplici melodie, magie da studio, sbarazzina spavalderia, incanto, angoscia: elementi che si prendono per mano, fanno a pugni, implodono, esplodono, in una via di mezzo tra il giro, giro tondo e il piccolo chimico. E lo fanno per tutto l'album e, spesso, anche all'interno della stessa canzone,

Prendiamo “Matilda mother” per esempio, dove nell'oscurità della casa delle bambole, tra vecchi profumi, si consuma una visione. E su una melodia incantata, ecco fluttuare nell'aria le figurine del libro di Mamma Matilde che se ne stan li come un bignamino del fantastico (re, cavalieri, campane, scarpe di legno, aquile scarlatte, occhi d'argento) .

La canzone non è solo zuccherina, che il buon Syd soffia, su questo idillio, una folata di vento gelido. E sembra quasi veder quelle figurine volarsene via. Che è successo? Semplice. Mamma Matilda ha smesso di raccontare .Ed è memorabile la voce solenne e sospesa di Syd a dir la paura del vuoto e del nulla. “Non lasciarmi qui in attesa, riprendi a raccontare”

E' solo un momento, ma l'angoscia nel brano ci rimane tutta, anche se corre parallelamente alla magia: rimane nel favoloso suono Floyd, che, tra le pause del cantato, si prende la scena, rimane nell'inquietante cantilenare del finale che pian piano si spegne nel vano tentativo di scaricarla. Succede di tutto in Matilda.

E succede di tutto anche nelle altre canzoni. Flaming è la mia preferita e ha parole filastroccose e anche un meraviglioso “Yuppii!!!” a inizio canzone. E ha campanelli, trilli, coretti, tastiere pazzerelle. E racconta di una strana specie di gioco psichedelico dove ci si nasconde nell'altrove barrettiano con la speranza di essere trovati il più tardi possibile.

Che dire poi della malinconica delicatezza di “The scarecrow”, della folle magia pop di “The bike”, del folk cosmico di “Chapter 24”? Capolavori, tutti capolavori della meglio gioventù floydiana.

Si, floydiana. Anche se ho parlato solo di Syd finora. E non è strano visto che sono un Barrettologo. Però se anche era dal nostro che venivano le idee, il suono Floyd era una faccenda che riguardava anche Mason/Gilmour/Wright.

Quel suono, quel pasticcio sonoro potente e sbarazzino che ho cercato di raccontare, non lo ritroveremo più. Non nei geniali album solo di Barrett, non nei più convenzionali lavori degli altri. Peccato.


Carico i commenti... con calma