È passata un po‘ in sordina l’uscita di questo nuovo lavoro di Tori Amos. C’è da chiedersi il perché. Di certo non per un disinteresse generale nei confronti dell’opera della rossa americana. Io stesso, da tempo strenuo detrattore dei suoi dischi, ho comunque continuato ad ascoltarla. Considerando l’importante profluvio di articoli e di recensioni, invero contrastanti, semplicemente mi viene da pensare che questo “Native Invader” sia un album spiazzante e di difficile comprensione.

Io credo di averlo capito benissimo invece e non ho problemi a sostenere che sia il suo più bel lavoro dai tempi di “From the Choirgirl hotel”. Dopo anni di aggiustamenti, limature, sbrodolamenti, filosofie farraginose e piagnistei Tori ha raggiunto un equilibrio ed una misura straordinaria sia dal punto di vista musicale che, finalmente, lirico.

Musicalmente la produzione, a cura del marito Mark Hawley e del fido Marcel van Limbeek, ha scardinato l’autrice dallo sgabello ed ha relegato il pianoforte a strumento comprimario e definitivamente accessorio. Era insostenibile pensare di andare avanti con l’immagine della ragazza al piano con postura di ¾! Al suo posto un fiume di languide chitarre 70’s ed un’ elettronica rarefatta ha preso ampiamente spazio fra le tessiture. Stessa cosa per il canto che ha totalmente abbandonato quel piglio isterico-uterino e si è abbassato nel registro favorendo le coloriture di uno splendido contralto. A tratti sembra di ascoltare I fleetwood mac che incontrano i Carpenters. La scrittura musicale è diventata inoltre asciutta (solo 13 i pezzi) ma più articolata: le trame melodiche si sono fatte meno scontate tanto che gli innamoramenti sono sì fatali ma non subitanei (il romantico special in “Broken arrow” o il morbido groviglio pianistico di “Breakaway” si aprono dopo numerosi ascolti ma affondano commoventi come una stilettata).

Ma è liricamente che il salto di qualità si fa evidente e affascinante. Via le nebbie filosofiche, via i simbolismi cavillosi, il disco si aggiusta su tre concetti chiari e pregnanti: la natura devastata, la relazione uomo-donna e, quello per me più riuscito e toccante, il tema religioso-cristologico. Nella canzone “Bang”, il brano musicalmente più vicino al suo periodo aureo, Tori canta di un’umanità ingrata e scellerata citando nella lunga coda 23 elementi della tavola periodica! Di contro in “Climb” il testo descrive con rischiosa, ma altrettanto meravigliosa ambiguità, la dualità padre/Padre e figlia/Figlio. Stranamente, ma neanche tanto, il pezzo più incensato dalle critiche, il duetto madre-figlia “Up the creek” è talmente hipster da stancare subito, pur essendo un bel pezzo. Troppo impegnativo, invece, è soffermarsi su quel miracoloso temino ai bordi di un’epica nonché bellissima “Mary’s eyes”.

Coloro che hanno classificato Native Invader come un guazzabuglio incolore di “contemporary starbucks adult pop” non hanno capito e sono ancora lì che aspettano una Cornflake’s girl anacronisticamente isterica. Sveglia! La Signora, vivaddio, non tornerà indietro. La trasformazione è finalmente avvenuta. C’è voluto qualcosa come una quindicina di anni ma, per quanto mi riguarda, ne è valsa la pena.

Fra le migliori uscite di quest’anno

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