1989, mentre i Tears For Fears pubblicavano il loro terzo e pretenzioso album io succhiavo il latte dalle tette della mamma, i brani del duo negli anni precedenti passavano sicuramente nella radio della camera mentre i miei genitori amoreggiavano; mai nell’anticamera del loro cervello avrebbero pensato che un giorno il loro figlio sarebbe andato a vedere un loro concerto. Effettivamente la cosa fa molto strano, un non ancora trentenne che va a vedere un gruppo degli anni ’80 quando invece dovrebbero essere i genitori ad andarci; sarebbe stato persino meno strano se fossi andato a vedere un gruppo prog degli anni ’70; perché sì, lo sappiamo, la musica in qualche modo arriva sempre alle generazioni future ma mentre il progressive è un genere continuamente seguito ed imitato e ha praticamente vissuto una seconda giovinezza la new wave ottantiana sinceramente parlando è invece rimasta piuttosto confinata ad un’epoca e ad una generazione, o almeno così sembra; non a caso ovunque muovevo lo sguardo nel pubblico prevalevano più o meno nettamente persone della fascia d’età 45-60.

Eppure non sono stati affatto i miei genitori a mettermi in testa i Tears For Fears, ci ha pensato uno dei miei due cugini, sì, esattamente quelli che mi hanno trasmesso la passione per i Dream Theater. Sapevo già chi fossero e che erano un gruppo di successo degli anni ’80 ma non mi ero convinto ad ascoltare i loro dischi, finché nel 2012 il cugino più grande mi fece presente che in realtà sono un gran gruppo con delle ottime melodie ed arrangiamenti. Effettivamente aveva ragione, oggi il pop fa solo rumore e diventa una giustificazione per fare le cose a cazzo; il pop invece è comunque un genere musicale che va comunque suonato con mestiere e cura dei particolari; esattamente quello che hanno sempre fatto i Tears For Fears, non mi faccio troppi problemi a definirli “il miglior gruppo pop di sempre”, secondo me sono davvero l’esempio di come si dovrebbe fare pop. Beh in fondo se piacciono anche a diversi musicisti un tantino colti un motivo ci sarà pure.

“Che bello se venissero al Forum, a una decina di chilometri da casa, sarebbe un’esperienza particolare ed insolita per un giovane come me, da vivere e da raccontare, prenderei il biglietto all’istante”… Quante volte l’ho pensato, quante volte ho espresso il desiderio, finché un giorno la pagina Facebook della band pubblica una locandina con un elenco di nuove date… fra cui ce n’è anche una al Forum di Assago; quasi come se fosse vero che a volte se esprimi un desiderio poi si avvera. Da uomo misterioso quale sono mi reco al punto vendita più vicino senza dire il motivo ai miei, nascondo poi il biglietto in una cartelletta segreta. Un entusiasmo che viene però frenato a non molto dall’evento, il duo annuncia il rinvio del tour per ragioni di salute mai del tutto chiarite, ecco che bisogna aspettare addirittura altri 9 mesi. Speravamo che nel frattempo il duo riuscisse a completare il nuovo attesissimo album ma nulla di fatto; chissà se un giorno ce la faranno davvero, dato che ci sono stati perfino rumors di nuovi dissapori fra Orzabal e Smith, qualcuno pensava che il tour sarebbe perfino rimasto un sogno irrealizzato.

Ma eccoci qui. Il 23 febbraio i Tears For Fears ci sono e sono pronti a condurci in un vero e proprio viaggio negli anni ’80. È ovviamente proprio da questo periodo che il duo estrae gran parte dei brani da inserire in scaletta. Ben 5 dal debut “The Hurting”, 3 dal best seller “Songs from the Big Chair”, 4 dal capolavoro “The Seeds of Love”; pochissimo spazio invece per la produzione più recente, solo un brano da “Elemental”, la solita “Break It Down Again”, un solo estratto anche dal disco della reunion “Everybody Loves a Happy Ending”, la brillante “Secret World”; totalmente ignorato invece il disco del 1995 “Raoul and the Kings of Spain”, un disco forse mai del tutto valorizzato e destinato a rimanere una perla sottovalutata del gruppo. In aggiunta una cover dei Radiohead, “Creep”. Una scaletta insomma con tutti i grandi classici che sembra accontentare tutti, un greatest hits dal vivo come spesso accade, la classica scaletta che osa poco, che va sul sicuro, che si domanda quali siano i successi più amati dal pubblico e dalla band stessa e senza pensarci troppo li butta dentro; il pubblico non può che essere contento, l’esclamazione “cazzo, che scaletta, con tutti i grandi classici!” è quasi inevitabile, tuttavia il rovescio della medaglia presenta quel lieve rammarico di chi ama alcune gemme più oscure e meno conosciute e vorrebbe sentirle live. È un dibattito che si può applicare a millemila band, medito di scriverci un editoriale in futuro. L’unica chicca è forse rappresentata dagli oltre 8 minuti di “Badman’s Song”, probabilmente nemmeno conosciuta da molti, ma neanche tanto chicca poiché da diversi anni è ormai un cavallo di battaglia della band.

Il pubblico come già detto è piuttosto datato, gente che all’epoca del successo era adolescente o attorno ai 20-25 anni. Chissà se qualcuno attorno a me avrà fatto qualche esclamazione sul mio conto, roba del tipo “ma chi è quel giovine da solo che viene ad un concerto della nostra generazione?”, ma se così fosse stato davvero ne vado fiero, in un’epoca in cui i giovani si sparano in macchina la musica di merda del momento. E per pubblico di età un tantino avanzata si intende anche pubblico composto, niente facce deliranti, niente urla frenetiche, niente tette al vento, un pubblico maturo che vuole godersi una serata di musica senza rubare la scena ai musicisti. Una situazione già parzialmente sperimentata 6 anni prima alla doppia data dei Marillion (casualmente anche loro pubblicavano il primo album nel 1983), lì forse il pubblico era un po’ più vivo e un po’ più alternativo. Diciamo che le ho sperimentate un po’ tutte, dal concerto fra un centinaio e qualcosa di cristiani passando per il concerto nel palazzetto fino all’area vasta (chissà se un giorno arriverà lo stadio, personalmente non mi entusiasma l’idea di vedere i musicisti piccoli come formiche), dal pubblico di metallari incalliti a quello di adolescenti fino a quello più anziano.

Il palco è allestito con uno schermo orizzontale abbastanza grande e con numerose lanterne luminose verticali, che sembrano particolarmente indicate per l’atmosfera glitterata e zuccherina tipicamente ottantiana che si vuole creare; sul megaschermo scorrono immagini a volte frenetiche e a volte tranquille, a volte confuse e a volte più ordinate, a volte più umane e a volte più astratte e psichedeliche; ma sono le lanterne a risultare decisive, a volte si accendono tutte e a volte solo alcune, a volte stabilmente e a volte ad intermittenza o alternativamente, a volte si accendono solo parzialmente, a volte creano figure geometriche, a volte emettono luci psichedeliche.

La resa sonora è praticamente perfetta, forse di tutti i concerti a cui ho assistito questo è stato quello con la migliore qualità audio, il sound è limpido e se l’obiettivo era proprio quello di ricreare l’atmosfera ottantiana direi che questo è stato centrato. Davvero, sembrava veramente di assistere ad un concerto degli anni ’80; la band infatti lascia pressoché inalterati i suoni originali ed esegue i brani alla perfezione, per di più alle tonalità originali, cosa non sempre possibile dopo trentacinque anni di carriera, c’è giusto qualche imperfezione nella voce di Orzabal ma assolutamente perdonabile, d’altronde c’è la brava Carina Round a coprire eventuali sbavature e dare quel tocco in più; troppo facile abbassare le tonalità, alla fine vince chi prova a dare il massimo eseguendo tutto alla tonalità originale, mica come gli Imagine Dragons che con un cantante poco più che trentenne abbassano tutto di diversi toni, anche da questo si vedono le grandi band… Ripetendo, è davvero incredibile il modo in cui gli anni ’80 vengono riprodotti alla perfezione, soprattutto quando senti eseguire “Mad World” e “Shout” davvero ti chiedi se eravamo ad un concerto del 2019 o del 1985; poi c’è “Advice for the Young at Heart” che suona persino più eighties dell’originale. Ma come per il discorso scaletta il rovescio della medaglia c’è anche qui, la scelta di non osare a livello di suoni e di nuovi arrangiamenti può far sembrare il concerto agli occhi di qualcuno un mero compitino o dovere contrattuale; tuttavia fa eccezione “Change” che viene riproposta con un sound più spigoloso e modernizzato, più “electro” e pure più rock, un’atmosfera che sembrava quasi da serata rave, un bridge eseguito quasi con la potenza di un heavy metal. Più energica dell’originale anche “Break It Down Again”, mentre una veste completamente diversa la assume “Suffer the Children”, una versione piano e voce piuttosto intima cantata in primo piano da Carina Round. Bella anche la cover di “Creep” dei Radiohead, che viene eseguita in una versione più soft ed elegante, priva delle sferzate chitarristiche del ritornello, una versione che si adatta allo stile della band senza tuttavia alterare lo spirito dell’originale; una cover come si deve, Vasco con la sua pseudo-versione italiana può solo vergognarsi e ciucciarlo…

Come il pubblico anche il comportamento dei musicisti sul palco è decisamente composto, giusto qualche battuta di Curt Smith, mentre un simpatico Orzabal prova a parlare in italiano.

In ogni caso mi sento davvero di dirlo, mi è sembrato davvero di rivivere un’epoca da me non vissuta; sarà forse che sono nato in quella sbagliata?

Meglio non parlare invece dell’opening act Justin Jesso, che sembra l’ennesimo cantantino pop dagli arrangiamenti piatti e banalissimi come se ne trovano a bizzeffe al giorno d’oggi; già il nome buffo diceva tutto, roba del tipo pubblicità della Citterio con Sylvester Stallone, “come ti chiami? Bubi!”, stessa sensazione che ho provato quando il Milan ha annunciato Musacchio (“ma chi è, un topolino dei cartoni animati?”); ho assistito alla sua esibizione senza entusiasmo, spero che abbia imparato proprio dai Tears For Fears la lezione su come si dovrebbe fare musica pop in maniera decente.

Qualche piccolo aneddoto: prima dell’acquisto del biglietto annunciai solo a mio padre l’intenzione di andare a questo concerto dicendo che “andrò a vedere un gruppo più dei vostri tempi che dei miei, che in teoria dovrebbe piacere più a voi che a me”, rimanendo tuttavia molto vago, ha giusto provato a sparare qualche nome senza indovinare; alcuni giorni prima del concerto ho citato il nome del gruppo a mio padre ma non gli veniva in mente nulla (mio padre è uno che rimuove abbastanza velocemente); al ritorno dal concerto mia madre chiede “ma dici che qualche canzone loro la conosciamo?” ed ecco che ho aperto YouTube, giusto qualche nota di “Shout”, “Mad World”, “Everybody Wants To Rule the World” e “Change” ed ecco che se le ricordavano benissimo. “E tu questi ti sei andato a vedere? Ma guarda un po!”, “Ma allora potevamo venire anche noi!” sono alcune simpatiche esclamazioni uscite loro di bocca, davvero non sapevano che avessi, fra le mie mille anime, anche un’anima new wave ottantiana; ho chiarito tutti i loro dubbi confessando la mia stima nei confronti di diverse band del periodo e di dedicare spesso ascolti verso di esse. In qualche modo so sempre come sorprendere!

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