L'occhio della cinepresa scava a fondo, rivelando verità che possono sfuggire allo sguardo distratto di tutti i giorni. E soprattutto possono fare male, ferire, mostrare sentimenti che confliggono con la visione edificante a cui siamo abituati. Così, la magia del cinema si abbina a un certo timore, per il giovane Sam. È la repulsione nei confronti di queste scoperte dolorose, l'angoscia insita nel fatto che, filmando qualcuno, se ne possa cogliere la scintilla più profonda, il sentire vero, e nel caso di un familiare possa risultare una scoperta per niente piacevole. Una scoperta che riguarda la madre del futuro cineasta.

The Fabelmans è un film importante, rivelatore. Un'opera utile a comprendere il suo autore anche oltre la stessa volontà di quest'ultimo. Nel senso che raccontando il suo amore per il cinema e i suoi anni giovanili, Spielberg rivela accidentalmente (o forse di proposito, ma pare più difficile) anche l'origine di quelli che sono i suoi limiti. Il discorso è un poco obliquo, ma seguitemi.

A fianco della pulsione creativa più squisitamente tecnica, per la quale il giovane Sam-Steven si mostra fin da bambino particolarmente dotato, nell'ordito narrativo fa capolino un problema. Riprendendo le persone, il ragazzo si rende conto di avere un punto di osservazione privilegiato, una specola dalla quale può indagare con occhio clinico i sentimenti degli altri, emozioni e gesti che normalmente possono passare inosservati. Ed è riguardando al buio il girato di una bella scampagnata in famiglia che Sam-Steven scopre ciò che non vorrebbe, individua un'incrinatura nella sua famiglia che gli sembrava indistruttibile.

L'onestà direi sentimentale della confessione tuttavia ha un risvolto metanarrativo. Mostrando quanto può fare male il cinema, quanto l'occhio indagatore sia in grado di scandire con impietosa chiarezza le nostre meschinità, Spielberg-Fabelmans ci rivela che in fin dei conti lui teme quell'arte, ha paura dei suoi risvolti profondi, emotivi, conoscitivi. Un cinema che indaga l'umano può intaccare le sue certezze di ragazzo come di 76enne. Il trauma della scoperta lo fa fuggire, abbracciando un cinema che è invece ingegneristico e pirotecnico. Un'arte che è imitazione folgorante (per la tecnica) e al tempo stesso simulacro rassicurante perché, a differenza del reale, rimane pur sempre sotto il controllo del regista-demiurgo.

Riprendere qualcosa significa controllarlo, dalle luci ai treni che si schiantano, la sabbia del deserto, il sangue della guerra. Tutto è meticolosamente falso e quindi niente può fare paura al giovane Sam. Ma l'umano no, non è mai pienamente gestibile, sorprende, trascina chi guarda nel gorgo dei sentimenti, cambia lo spettatore e anche il regista. Corrode ogni certezza.

Dico che questo film è più grande delle intenzioni dell'autore perché mostrandosi così Spielberg ci conferma un tratto sempre più evidente in questa fase senile del suo percorso. L'incapacità di raccontare qualcosa che esondi il suo dittatoriale controllo, l'impossibilità di dire qualcosa di pericolosamente umano, il rifarsi ostinatamente a dei cliché nel costruire personaggi che non sono mai pienamente tondi, ma sempre un po' macchiettistici.

Il potere del cinema spaventò il ragazzo e dopo cinquant'anni suonati di carriera, pieni di fuochi d'artificio ma anche di tanto mestiere, possiamo dire che continua a spaventare il vecchio. Non vuole indagare l'animo umano, per via di quel suo trauma antico. Questa è la rivelazione che illumina in retrospettiva decine e decine di opere. Tutto dev'essere (ed è) magnifico nella sua arte, il genio scientifico si dipana in una tecnica formidabile, quasi ossessiva nel ricreare la realtà. Ma è una realtà claudicante perché in quegli scenari l'autore (che autore non è davvero) ci mette personaggi che mortificano un po' tutto quanto, nei loro limiti evidenti. Sono algoritmi, funzioni controllabili, come le luci o i movimenti di macchina su un carrello. E per questo sono sempre un po' stucchevoli per chi guarda, manca il guizzo che è proprio dell'imprevedibilità umana. Steven la evita, la sottrae al suo cinema perché quell'arte per lui è puro egoismo, autocelebrazione, controllo spasmodico. L'unico vero personaggio a tutto tondo dev'essere lui.

Anche qui, nel film della sua vita, c'è tanta superficie, tanti suppellettili. Un'ora quasi di questioni adolescenziali superflue, a voler essere gentili. C'è tantissima tecnica, nel senso che il fare cinema in termini concreti viene mostrato con dovizia di particolari ed è meraviglioso. È la magia della settima arte nella sua dimensione più performativa: per Steven l'obiettivo finale è l'inganno di un istante, l'illusione che quanto scorre sullo schermo sia vero. Non c'è niente oltre, tutto si gioca nello spazio che va dall'idea al momento in cui la finzione inganna magicamente l'occhio del pubblico. È una sfida estetica, che si spegne con il proiettore in sala.

Non c'è niente oltre quell'istante, perché sa di non saperlo controllare. Non ha dimestichezza con le reazioni umane. Sa che girando si dà un'interpretazione delle persone, lo prova sulla sua pelle quando due bulli lo contestano per motivi diametralmente opposti. Uno appare troppo figo nel filmino di scuola, l'altro troppo sfigato. Ma Sam-Steven non intendeva dare un giudizio. È qualcosa che è emerso suo malgrado.

Così, anche oggi, quel genio della tecnica continua ad avere poca dimestichezza con le cose umane e il giudizio che emerge su di lui non è del tutto lusinghiero, ma forse non se n'era accorto.

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