Un altro piccolo spicchio del dark progressive è stato riempito da una band piuttosto misteriosa e occulta: gli Still Life. Esordirono nel 1968 con un brano antimilitarista, "What Did We Miss", per poi arrivare 3 anni dopo con il loro primo e unico lavoro omonimo. Il sound è il classico dark progressive che in Inghilterra andava alla grande, grazie a band come i Monument, Dr.Z, Black Widow, Atomic Rooster e gli Zior. La formazione era composta da Martin Cure alla voce, Graham Amos al basso, Terry Howells alla tastiera e Alan Savage alla batteria. La copertina è abbastanza celebre, forse ripresa dagli Opeth, appassionati anch'essi di prog anni 70, nel loro primo cd "Orchid".

L'atmosfera che vive nell'album è malinconica, decadente, gotica, che riprende tempi antichi, lo stesso sapore che si respirava in lavori come "Three parts to my soul" dei Dr.Z o "Sacrifice" dei Black Widow. Fondamentale è la presenza della tastiera, il carissimo vecchio Hammond, e la voce che a volte assume dei toni quasi marziali tipo i Writing on the wall.

Appena addentrati nel cd, con "People In Black", la band ci propone subito sonorità folkeggianti impregnate di dark guidate dalla malinconica e quasi sofferta voce di Martin. Dopo un introduzione piuttosto sommessa veniamo avvolti dalla bellezza dell'Hammond che sprigiona tutta la sua espressività. Già da questo primissimo brano il gruppo ci fa un riassunto di quello che andremo ad ascoltare nel resto delle cinque canzoni. Con la seconda, "Don't Go", approdiamo a una dark ballad con molti riferimenti al beat anni 60, tipo Procul Harum e Small Faces negli intrecci tra voce e la solenne tastiera. La voce sempre espressiva conferisce originalità a un brano che potrebbe risultare un po' scontato o gia sentito, ma in realtà si dimostra tutt'altro che banale. 

"October Witches" a mio parere è il momento più alto dell'album, dove in otto minuti si riesce a pieno a racchiudere l'essenza degli Still Life. Un brano dove sembra così tutto perfetto, riff e sferzate di tastiera sembrano dialogare divinamente e  il refrain quasi cantilenante mette d'accordi tutti sulla sua bellezza. Uno dei pochi gruppi che riesce a trasformare l'Hammond in una Fender, con il suono cosi compatto e diretto che ci si scorda quasi dell'importanza della chitarra in un gruppo rock. "Love Song N.6 (I'll Never Love You Girl)" si appresta inizialmente come un altra folk ballad, con la voce che assumie toni cupi alla Peter Hammill, mentre nella parte centrale troviamo sferzate hard rock psichedeliche.

"Dreams" è il pezzo dark per eccellenza, con introduzione sommessa sia di voce che di organo, dove troviamo un Martin Cure carico di phatos, di sofferenza ma anche di rabbia quando urla ossessivamente "Dreaming..no more!". Tutto ciò ci introduce in un trip oscuro in terre lontane e sconosciute, arrivando in un imperioso refrain e in un susseguirsi di assoli. Veramente bella. Dopo questa piccola gemma gli Still Life concludono la loro opera con "Time", pezzo veramente interessante dal punto di visto tastieristico e un Martin Cure che non è da meno, dove potenza, oscurità e melodia si uniscono perfettamente. Ci troviamo in momenti sommessi, hard rock e altri quasi alienanti grazie agli spaesanti urletti in falsetto.

Questo è il tutto, ricercate anche questo bel lavoro di dark prog che, non sarà ricordato come un "Death Walks Behind You", ma ci si avvicina molto. Sicuramente non deluderà gli amanti e i nostalgici dei seventies, ma anche quelli un pò più moderni, tipo Opeth e compagnia bella.  

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