Per chi ama suoni “strani”, sperimentazioni e follie varie, difficile che si scandalizzi di fronte ad ascolti di questo tipo. Mi è capitato di tutto, ascoltare ronzii elettronici, canzoni cantate da gatti, pazzi deviati che usavano frustate come sessione ritmica. Di fronte a questo capolavoro leggendario però ho dovuto riflettere e riprende fiato.
“Suicide”, disco della band omonima, esce nel ’77, esce dall’underground newyorkese e scompiglia le già frastornate idee con la rivoluzione punk in atto. Il duo Alan Vega al canto e Martin Rev alle tastiere ed effetti, incidono una vera e propria sinfonia urbana, folle interpretazione della vita quotidiana nella metropoli. Il ritmo è ispirato dal moto della metropolitana, un groviglio di tunnel dal quale si può riemergere dopo ore…
Il background del duo è complesso e compiuto come pochi. Fin dal 1971 si esibivano nei circoli underground e nelle gallerie di arte moderna, proponendo classici blues rielaborati e decadenti. In questi ambienti ricchi e colti, ma anche fonte inesauribile di depravazioni e marciume chic!, il duo ha sviluppato un sound che abbraccia il rockabilly americano e il minimalismo, con il cantato funereo di Vega, personaggio sciamanico secondo solo a Jim Morrison.
Il disco è minaccioso fin dalla copertina: il nome del gruppo che gronda sangue, ma l’ascolto è ben peggiore. “Ghost Rider” è la opening track, è un pezzo dal ritmo pulsante, sincopato, perfetta nell’equilibrio tra la voce e i droni elettronici che Rev con maestria dispensa. Con “Rocket USA” si scende ufficialmente nei labirinti dei sottosuolo. Il ritmo è infernale, incalzante, i sospiri di Vega sono angoscianti, le tastiere in stile Manzarek creano un party malato, lascivo. “Cheree” è una ballads unica per il suo genere, irripetibile. Lo zombie Vega pronuncia “Cheree, Cheree I love you…” con il massimo della depravazione, la sua voce è un biglietto verso la dannazione, in tutto guidato dallo xilofono… “Jonny” è una manipolazione dei rockabilly degli anni 50, il solito “pulsare” meccanico con un ossessivo synth che traccia la melodia. “Girl” è un esplicito invito sessuale. Vega con la sua voce simula orgasmi, invita a peccare “Touch me so..” , “Turn me on..”. Immenso è l’accompagnamento di Rev, il motivetto raga alla Doors si insinua nella testa e non dà tregua. Potrebbe essere l’ideale accompagnamento per maniaci sessuali. Potrebbe bastare, ma il peggio è in agguato, appena alla traccia successiva. “Frankie Teardrop” è l’incubo in musica. Il ritmo ossessivo, marchio di fabbrica del duo, non dà tregua.
Alan Vega racconta sequenze di vita normalissima: andare a mangiare, tornare a casa. Le pause sono angoscianti innaturali, interrotti da urla lancinanti, manipolazioni vocali, riverberi, note di xilofono senza senso. Per 10 lunghi minuti non si hanno più certezze, si ha l’impressione di non uscire più da quel maledetto sottosuolo, da questo maledetto disco.“Che” chiude l’album, è la fine, il degno funerale, il requiem.

In trentuno minuti la storia è scritta, uno dei dischi più violenti, malati e folli di sempre è dato ai posteri. Quando la ragione ritorna a prendere possesso della mia persona, riesco ad apprendere l’incredibile fusione di opposti, la disarmante semplicità di questa musica e la degenerazione emotiva con cui la si esprime, la dolcezza delle tastiere di Rev e l’irriverenza del cantato di Alan Vega. È come se l’inferno e il paradiso si scopassero fino allo stremo, fino alla morte di entrambi gli amanti.

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