Il suono dei TYA insiste a mietere vittime, cioè me stesso, continuando a diffondere il suo veleno cupo e solare che si spande come un maremoto, investendo ogni cosa con la sua polverizzante purezza metonimica: Sugar the Road e Walking on the Road fanno tabula rasa di ogni pesantezza e triste presagio.

Circa 40 minuti di wild sound direttamente dalla primavera del 1970 e quando schiacci il tasto play senti vivere il sincopato che ti riallaccia alla volatile storia dell’umano. Questa colonna sonora heavy’n’blues sembra esserti esattamente l’ideale compagna immateriale, capace di ricollegare pure, tramite le generose e immani scariche elettriche apotropaiche devolute, il cielo al suolo: ed eccoti sparato nell’Iperuranio.

Un esempio di ciò è avvalorato da 50,000 Miles Beneath My Brain che doppia la Dear Mr. Fantasy dei Traffic. Finalmente una bass line tumultuosa in primo piano e che spartisce il groove con l’integerrimo vocalist, Alvin Lee, prima che la sua chitarra salga in cattedra sfilando in modo emozionante il paradiso e l’inferno. Degno contendente dell’oltre-graffiante mood Stones fine sixties.

Se l’adrenalina sale vertiginosa e il soul si innesta in sottotraccia palpandone la ciccia beat, quello che si para innanzi all’ascoltatore è un radicale woogie tonk blues di sicura efficacia (Year 3000 Blues), per deviare poi, alla prossima ramificazione stellare, nella cosmica coppa del jazz blues intingendo gli strumenti dentro la classe e soffiando sullo scottante affiatamento di Me and My Baby, espressione pure di tastierismi ad hoc.

Siamo alle soglie di Love Like A Man: 7’41” di robusta declamazione hard blues in cui la sommovente sezione ritmica si eleva a ipermantra tettonico, costituendo il perfetto tappeto sonoro alle stratificazioni offerte dalle scie della chitarra di Alvin Lee - il ritornello serve a far respirare la song, ormai entrata nel buio misterioso delle galassie – e lo avverti sul prato epiteliale il cervello che lì rotea uguale a una palla da rugby.

Accompagna il dolce ritorno sulla Terra, Circles, e i toni si abbassano diventando agresti e bucolici, pregni di quella polvere cosmica che si è attaccata addosso alla band durante il viaggio interplanetario intrapreso e la fa brillare di scintillante strangitude.

Come capita spesso, tra capo e collo, quando meno te lo aspetti, basta un gran disco a deportarti in luoghi felici dove la memoria del sentimento passato si coniuga nel presente, addizionando lo spirito di quello scostamento provvidenziale che traduce la nostra permanenza in viaggio… As the Sun Still Burns Away.

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