Capita raramente, ma quando capita sa di epifania mistica.

Innamorarsi di un disco è un po' come innamorarsi di una donna. Si tratta spesso di un colpo di fulmine che, come inaspettatamente ci colpisce, tanto velocemente sfuma e se ne va lasciando al più un sapore dolceamaro in bocca.
Nei casi migliori, la fiamma brucia sommessa per esplodere con un crescendo lento ma inesorabile, lasciandoci indissolubilmente legati e avvinti non solo ad un corpo ma ad un individuo tutto, ormai parte inconsapevole di noi stessi. Non so quale fra queste due tipologie di innamoramento prediligo.

Il primo brucia come le fiamme dell'Ade, ti fa sentire come un pompiere di Farenheit 451, ha una durata spesso fisiologica ma nell'arco della sua permanenza diventa sostanza del nostro essere e fonte di tutte le gioie (vere o presunte tali).
Il secondo porta con sé dubbi e illazioni sulla sua veridicità, ma mentre si è intenti ad elucubrazioni mistico-psicologiche sul nostro ruolo nel mondo e sul significato dei sentimenti umani, lavora di scalpello nel nostro subconscio, fin quando la realtà diventa molto più lapalissiana di quanto masochisticamente pensavamo. E come una supernova brucia eterna e immutabile, diventando sinonimo della vita stessa.

Questo primo disco dei Kings Of Frog Island, dato alle stampe ad inizio anno, rappresenta il giusto mezzo fra le suddette categorie. Non ci sono motivi di raziocinio musicale che mi hanno spinto ad amare questo disco: a ben vedere si tratta di opera inscrivibile nell'ambito stoner (categoria affibbiata a posteriori alla musica prodotta da Kyuss, Monster Magnet, Sleep e altri gruppi americani di inizio '90, ispirata dal primo hard rock sabbathiano ma non solo, e dalla psichedelia spaziale di gente come Hawkwind e Captain Beyond) di per sé derivativo quasi per ragione sociale. Ma, per fortuna, la musica è in buona parte istinto e non raziocinio.
E allora ci si ritrova a cantare a squarciagola in mezzo al traffico un pezzo intimista come "The River", che sa tanto di omelia funebre quanto di promessa di un futuro luminoso, si ritorna adolescenti sulle note di "Slate Blue Sky" mentre affiora il ricordo dei Temple Of The Dog, viene voglia di danzare intorno ad un fuoco sui tribalismi di "Amphibia".

E non importa se "Psychomania" è basata sul solito wah wah di scuola Black Sabbath e "Beyond Revolution" sembra presa di peso da "Spine OF God" dei Monster Magnet; per quel che ne so questo disco rappresenta tanto "il qui e l’ora" quanto tutte le cose accadutemi negli ultimi 6 mesi, belle e brutte che siano state.

E questo mi basta. Dedicato a mia nonna Elvira. Mi manchi vecchiaccia.

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