Chi è Davide Combusti? Figlio d’arte, di una città d’arte (Roma) e con un nome d’arte: The Niro. Mentre mi sento di poter sorvolare sulle ragioni di uno pseudonimo così “grottesco”, credo sia difficile, invece, poter ignorare il talento di questo cantautore nostrano, che va al di là dei buoni riscontri di critica e pubblico, dell’attenzione di una major come la Universal o dell’inatteso quanto immediato abbraccio del mainstream. Al di là anche del premio come “Rivelazione dell’anno 2008” ricevuto dal M.E.I. (Meeting delle Etichette Indipendenti). Il nostro Davide non è un giovincello imberbe, bensì un navigato polistrumentista che si è fatto una gavetta mica da ridere, crescendo nei piccoli locali della capitale per poi ottenere i primi riconoscimenti negli States, confermati poi nel Vecchio continente. Uno che ha avuto l’opportunità di collaborare in un progetto del manager dei Radiohead e di aprire i concerti di nomi illustri come Deep Purple e Amy Winehouse. Ma in fondo neanche questo può valere un apprezzamento a prescindere. E allora che parli la musica. The Niro è un cantautore intimista, un menestrello del nuovo millennio, che tanto ricorda la musicalità di sfortunati ed inquieti eroi come Nick Drake o Elliott Smith. Non me ne vogliate per questi accostamenti, non è certo mia intenzione asserire che arrivi a toccare certe vette, ma l’indirizzo artistico è quello. Come peraltro la sua voce emozionale e quel perfetto controllo del falsetto non possono non far venire alla mente il mio personale eroe: Jeff Buckley.

L’omonimo disco di debutto fa della semplicità il proprio punto di forza e possiede la freschezza degli esordi. Davide imbraccia la sua chitarra e ci accompagna per mano nel suo mondo, fatto di chiaroscuri, di onnipresenti e raffinati passaggi acustici che lasciano spazio a sporadici ma adrenalinici frammenti d’elettricità. Un suono che vive di arrangiamenti minimali e rifugge dagli artefizi del digitale. Mentre la sua voce piena di colori e sfumature pennella incantevoli melodie, tra intimi sussurri e squarci di voluttuosa malinconia. I picchi emotivi di quest’opera vengono raggiunti nelle canzoni più sofferte, come la splendida ballad dal sapore latino “About Love And Indifference” oppure le elettriche e viscerali “You Think You Are” e “Just For A Bit”. Ma direi che ogni pezzo ha la propria anima e peculiarità, tranne forse un paio di brani (su tredici) che si rivelano episodi minori. Il difetto più grande che personalmente vedo in questo disco è la mancanza del coraggio di cantare in lingua madre. D’altronde lo stesso cantautore dichiara in tutta onestà di non essere in grado ancora di trasferire la medesime intensità nelle liriche in italiano.

Chissà che non sia proprio The Niro, finalmente un artista del nostro Bel Paese, a farci riscoprire quelle emozioni di cui il beffardo destino ci ha privato. Forse è solo una speranza, ma l’inizio è promettente e a breve potremo sapere se resterà solo un miraggio. “Best Wishes”.

Carico i commenti... con calma