Circolano decine di raccolte di questo quartetto beat inglese trapiantato in Italia, quasi tutte a buon mercato. Esse presentano più o meno le stesse canzoni, vale a dire quella mezza dozzina di singoli che fecero la loro fortuna tra il 1966 e il 1968 più qualche successo minore, ma quasi sempre di quel periodo d’oro. In questo disco vi sono dieci episodi in tutto, dalla prima consistente affermazione “Che colpa abbiamo noi” alle sanremesi “Bisogna saper perdere” e “Ma che freddo fa”, dalla cover di Cat Stevens “Eccola di nuovo” alla cavalcata del trend hippy in atto con “Cercate di abbracciare tutto il mondo come noi”.

La vicenda dei Rokes è all’inizio quella tipica di ogni formazione britannica sospinta da quegli irresistibili modelli costituiti da Beatles e Stones. Ma nel loro caso con un’importante, decisiva scelta: mentre che erano ad Amburgo, al tempo la classica prima tappa “continentale” per ogni gruppo albionico che si rispettasse, vengono rimorchiati da un cantantucolo rock’n’roll del loro paese che deve onorare un contratto per una tournée italiana, ed accettano di accompagnarlo sui nostri palchi. Succede però che costui perda quasi subito la voce… I contratti sono da rispettare e il quartetto di musicisti coglie l’occasione per sfoderare il proprio collaudato repertorio di cover r’n’r in giro per lo Stivale e… grande successo!

Così decidono di rimanere da noi, fanno gavetta accompagnando Rita Pavone e altri finché il giro “buono” (Teddy Reno, Mogol, Migliacci…) li adotta e li lancia compiutamente, convincendoli a cantare in italiano cover inglesi scelte dal “comitato”. Il frontman Shel Shapiro da bravo londinese ha una pronuncia da barzelletta, ma in quegli anni sessanta la cosa funziona, anzi porta fascino ed esotismo… Ancor oggi Shel tiene un accento cockney micidiale e sono sessant’anni che campa qui da noi, paro paro al suo “gemello diverso” Mal, a sua volta calato in Italia pochi anni dopo col suo gruppo Primitives e mai più schiodatosi da noi.

I Rokes, scioltisi già nel 1970 anche se più o meno tutti i componenti il quartetto, non solo Shel, sono rimasti a far musica in Italia, erano un buon gruppo beat, tenevano solidamente il palco e suonavano più che decentemente. Come tutti i gruppi beat del tempo si appoggiavano ai giganti del decennio come sonorità e arrangiamenti, vale a dire Beatles (poco), Stones (molto), Byrds (moltissimo), Beach Boys (quasi niente).

Fra i primi, nitidi ricordi ad avanguardia della mia precoce passione musicofila vi è il Festival di Sanremo del 1967, trasmesso dal pesante cubo del Philips 17 pollici in bianco e nero nel soggiorno di famiglia. Quell’anno, a simbolo dell’impetuoso dilagare delle band musicali, ad esse non era riservato il palco del Casinò come per gli artisti solisti… Troppo casino per i benpensanti in platea e poco spazio per amplificatori e chitarre su quel palchetto, già stipato di fiori. Così era stata allestita una sala/studio appartata e, ogniqualvolta veniva il turno dell’esibizione di un gruppo, si accendevano le telecamere di quello studio, coi musicisti lì già pronti che attaccavano il pezzo… Finito il quale si tornava con agio alla kermesse principale alla sala grande del Casinò.

Ebbene, la visione di quei quattro capelloni magrissimi e nero vestiti, con le conturbanti chitarre “a freccia” della Eko scelte per fare scena, con gli stivaletti a tacco alto che scalciavano il ritmo in mezzo a tutti quei cavi e quelle prese (e la canzone era pure bella!: “Bisogna saper perdere”)… Mamma mia che emozione! Altro che la versione gemella dello stesso brano sentito poco prima cantare da Lucio Dalla accompagnato dall'orchestra… Ero un bambinetto e quella prima esperienza rock fu profondamente formativa verso la passione per quella musica, i suoi contenuti, il suo potere comunicativo, visuale e sonoro.

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