Se avete una band questa band ha il tipico nome che vi farebbe esclamare "perchè cazzo non ci ho pensato io". Io ce l'ho ed ho reagito esattamente così. Ma non vi fermate al nome signori miei. Non commettete questo madornale errore. Perchè qui dentro, dentro ai Samuel Jackson Five, c'è un mondo intero. Ed è un mondo fantastico. La Norvegia continua a donarmi momenti di vero piacere. Probabilmente c'è qualcosa nella neve. Magari c'è della yellow snow e questa gente non segue il consiglio di Zappa e se la mangia tutta e, un po' come quando lecchi certi rospi, ti si apre un universo di suoni che ti tocca solo tradurre in realtà tangibile. E una volta che questo è accaduto, che è stato creato un razzo verso altri pianeti a noi non resta che poggiarci sopra il culo e lasciarci trasportare lontano, nello spazio-tempo, a scoprire le meraviglie del nulla fino al centro dell'universo.

Non ci credete? Allora cominciate con il conto alla rovescia, l'introduzione di "Never-Ending Now", con la sua splendida melodia celeste, forse una hang drum dal cosmo, e uno splendido vortice di chitarre arpeggiate che si incrociano, incastrano e avvitano sul pianoforte in una progressione ascendente verso il pianeta Jaga Jazzist. La spinta in accelerazione comincia con "Electric Crayons", dove spuntano degli anelli cosmici di math-rock che si snodano su una voce che si inerpica in falsetti tanto sforzati quanto belli, una lezione di post-hardcore in progressività sintetiche. E il pianoforte saluta il fantasma del primo uomo a volare nello spazio, "Radio Gagarin" è summa di generi, cascate e sintomi di pianismo classico russo che si fondono con sintetismi radioheadiani, algidi quanto espressivi. Il vaso di Pandora non è ancora totalmente svuotato perchè la coltellata di "Race To The Self-Distruct Button" è pronta a colpire in pieno petto. le chitarre si fanno macigni, asteroidi impazziti, ancora math-rock, il basso sferraglia sotto i synth, la batteria è inesorabile, i cori semplicemente perfetti. Alla faccia di Hawking sul nostro cammino verticale verso il centro dell'universo troviamo "Ten Crept In" un buco bianco dal quale sgorgano melodie pop, che io direi pure power pop, che qualcuno direbbe pop-progressivo, ma che sempre pop rimane, di una bellezza sconcertante, voce che carezza i nervi e chitarre sempre in prima linea a tessere reticoli di stelle imponenti. E su su fin dove l'entropia è più bassa, dove tutto è concentrato in un sol punto, come se questo fosse il vero inizio del disco, un Big Bang caldo e compatto, "Low Entropy", appunto, è questo, una chitarra classica che torna alle origini, splendide radici folk, fino alla fine di tutto.

Fatevelo un bel viaggio. 

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