Quando i fenomeni s'attenuano sono soltanto in pochi a mantenere il consenso di una volta. Ad oggi, di tutto il movimento root in quello scorcio di secolo scorso a cavallo tra i sessanta e i settanta, le masse ricordano pochi nomi, quelli di Bob Dylan, di Neil Young, forse di Joan Baez complice la sua love story con il menestrello di Duluth. Poi, tutta una serie di "l'ho sentito nominare" oppure "chi? Quello coi baffoni? Quelli che cantavano...?". Alla fine, chi non è "del settore", a fatica ce la fa a ricordare il quartetto Crosby, Stills, Nash & Young, senza però aver modo di riconoscere in viso alcuno se non forse il loner canadese. A malapena riesce a ricordarsi di Joni Mitchell, ma non per i momenti di gloria, bensì per il concerto di Roger Waters ai tempi del crollo del muro di Berlino. Ah, e Kris Kristofferson perché l'amico del diurno in "Blade". Poi, se la Baez va su Raitre per coverizzare un cavallo di battaglia di Morandi, allora pensi che non vi sia ragione per approfondire la conoscenza del genere musicale e degli altri suoi protagonisti.

Nel 1974 siamo ancora vicini all'epoca d'oro della musica rock westcoastiana, ma già non pochi sono i personaggi che non riscuotono più il consenso di un tempo. La produzione artistica di costoro, comunque, spesso non conoscerà sosta, ed anzi in precedenti mie ero già convenuto sull'assunto che una sacrosanta parsimonia nelle sortite discografiche, soprattutto una volta finiti i bei tempi, avrebbe potuto giovare a molti di costoro.

Poca la gloria residua per i grandi di quell'"epopea",  figuriamoci dunque quanto vi fosse rimasto sul piatto per le seconde e le terze linee! Chris Hillman è sempre stata una di queste: secondo dietro a Gram Parsons, Stephen Stills e Roger McGuinn, terzo nei Byrds quando non c'era più Clark ma la line up comprendeva ancora Crosby,  addirittura non classificato quando i Byrds erano  al completo; dagli anni sessanta e di lì fino al 1976 non un disco solista a suo attivo. E Richard Furay? Le cose per lui furono un po' diverse: egli, da rassegnatissimo terzo dietro ai massiccissimi Young e Stills, "approfittò", assieme all'altro compagno in sordina Jim Messina, dello split dei Buffalo Springfield per dar sfogo alla sua creatività in quella che fu una band di enorme caratura, i Poco.  Quindi perlomeno il suo se l'era preso.

Nel 1974 i due già veterani si uniscono al soft-rocker d'estrazione root,  J.D. Souther, e danno vita a questo "supergruppo per addetti ai lavori". Un tiepido, rincuorante successo arriderà ai tre, i quali per  tale ragione sceglieranno, sempre ed immancabilmente l'anno dopo, di ripetere la formula di questa "The Souther-Hillman-Furay Band". Incomberanno gli dèi a far perdere a costoro la voglia di proseguire oltre: il dio denaro (la mancanza di successo) ed il dio dei cristiani, che di lì a breve termine trasformò Richie Furay in un devotissimo menestrello in salsa christian(-root)-rock, fino a tramutarlo nel pastore protestante che oggi è. Il loro disco d'esordio consiste in un soft-rock di sana e robusta costituzione, che attinge dal nobile passato dei due più blasonati autori e lo aggiorna alle esigenze radiofoniche.

J.D. Souther del trio è l'anima più smaccatamente soft, e piazza un episodio più semplice ed orecchiabile dell'altro, in particolare "Border Town", sunny ed estiva, nell'accezione di scanzonato e, perché no?, banalotto. Le sue radici affondano poco ma sono dentro allo stesso terreno in cui stanno immerse quelle dei suoi due colleghi, ed allora la sua "Pretty Goodbye"è un'ex ballata country-folk che ha l'ambizione di divenire molto più complessa ed intrigante, ma l'intenzione è una cosa e il risultato un'altra. Sua  è anche la delicata ballatina finale in salsa folk-pop "Deep, Dark And Dreamless". Fedele ai suoi standards.

Chris Hillman è dubbioso: da un lato non vuole perdere la sua identità bluegrass (la dimessa ballad "Heavenly Fire"), mentre dall'altro lato pare il più entusiasta di ritornarsene a fare il pischello in spiaggia, col rock giocoso e fracassone di "Safe At Home" e l'ottima "Rise And Fall".

I tre musicisti non sono comunque eterogenei: scelgono di affidarsi all'easy rock per i pezzi lesti ed al country e al folk mescolati per le ballate; tutti e tre propongono esemplari dell'una e dell'altra categoria. Il migliore del trio, per qualità di scrittura, è Richie Furay, il quale si mette subito al servizio della causa radiofonica con la gradevolissima opener "Fallin' In Love", dall'inizio emblematico: sembra un pezzaccio rock di quelli che ti faranno venir voglia di simulare le parti di chitarra, e poi invece vira verso il pop rock depotenziandosi. La sua "Believe Me" è sound westcoastiano doc, nell'accezione più nobile, niente da invidiare al suo "superiore" Stephen Stills ed al ben più famoso trio CS&N. Infine, "The Flight Of The Dove" è un mid tempo sugoso e ben intelaiato che scorre che è un vero piacere.

Dietro questi tre c'è praticamente quasi tutta la sezione ritmica dei Manassas, ovvero le quarte linee, le pedine. Davanti a Furay e ad Hillman, immutabilmente, i re e le regine.

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