1)

E una ragazza che sembrava un elfo (o un elfo che sembrava una ragazza?) diventò il tam tam dei sobborghi. Piccola come uno scricciolo picchiava sui tamburi infernali un ritmo monotono e selvaggio senza fermarsi mai.

Se il tamburo è urlo di guerra o primordiale strumento per uscir da se stessi, la ragazza elfo unì le due cose e come una specie di inconsapevole guerriero/sciamano divenne il cuore pulsante della più portentosa e folle rock band di sempre.

Si, folle. Talmente tanto che non poteva durare.

Infatti, tutto finì in una specie di strano languore, con un poeta che decise di rinunciare al caos…

Quel caos che avrebbe voluto essere ( e forse era stato) “l’equivalente occidentale della danza cosmica di Shiva suonata come se Babilonia prendesse fuoco”

Allora la ragazza elfo , smessi suo malgrado i panni sciamanici (e nascosta dietro i tamburi oramai inutilizzati) fece per la prima volta sentir la sua voce. Era una vocetta da niente che, infantile e come sorpresa, emozionava quasi quanto l’antico tam tam...

Una vocetta che cantava una canzoncina o forse una filastrocca. Le prime parole dicevano; “Un due tre, se chiudi la porta la notte potrebbe durare per sempre”...

2)

E comunque al caos ci pensava il fottuto gallese, un maledetto avanguardista testa d’uovo, compare di un’altra testa ancora più d’uovo di lui, l’esimio La Monte Young. uno che aveva imparato a sognare standosene appollaiato su dei grandi serbatoi di benzina da dove ascoltava rapito il suono di una ventina di trasformatori della vicina centrale elettrica.

E che pensava di creare la propria personale Dream House, ovvero “uno spazio organizzato per generare suoni e luci senza soluzione di continuità”, luogo dove poi avrebbe suonato la sua musica “nel senso di sovrapporla delicatamente ai suoni che già esistevano, adeguandosi con cautela a quell’organismo dotato di vita proprio”.

Solo che poi il nostro gallese, già infatuatosi di suo del rock’n’roll, incontrò Lou, uno che scriveva canzoni e quelle canzoni avevano parole che non si erano mai sentite prima.

Una leggenda narra che i due si misero subito a suonare per strada, Lou la chitarra e il nostro gallese invece la viola, strumento che lui considerava “il più triste del mondo.

Il suono della chitarra una specie di incongruo rock boogie, quello della viola lo stridio di un milione di vespe impazzite, con i passanti che non li degnavano nemmeno di uno sguardo.

Terminato lo spettacolo il gallese ebbe l’idea, le canzoni di quel tipo sarebbero state la sua personale Dream house, il luogo dove avrebbe suonato la sua musica, solo che lui non si sarebbe adeguato con cautela a quell’organismo dotato di vita proprio, anzi lo avrebbe completamente stravolto.

3)

E comunque il nome della ragazza elfo era Maureen Tucker e quello del fottuto gallese John Cale.

Lou, John e Maureen quindi.

Ma c’era anche altra gente.

Tipo Andy Warhol, che mise due lire e diede a Lou un foglio con i titoli di quattordici possibili canzoni, nonché un elenco di temi di cui avrebbe dovuto parlare.

“Ah, soprattutto devi scrivermi una canzone sulla paranoia”

Poi c’era anche un chitarrista, Sterling Morrison, che era appunto il chitarrista dei Velvet Underground. “Che hai fatto tu nella tua vita?” “Il chitarrista dei Velvet Underground” “Ok, ragazzo, puoi andare”.

E Nico, chanteuse di passaggio dalla fragilissima voce di ghiaccio, che rimarrà il tempo necessario per lasciare indelebili tracce. E quando dico indelebili intendo proprio indelebili.

E poi un ballerino con la frusta, e un sacco di galoppini di Andy, e un tale, Angus Mclise, che se ne andrà immediatamente, anche se non prima di aver avuto l’illuminazione sulla ragione sociale del gruppo. Che Velvet underground era il titolo di un romanzetto sado/maso che un giorno gli capitò di trovare in una banzarella.

Poi ci sarebbe Doug Youle, il sostituto di John. Che, si, un giorno Lou cacciò John. “Doug Youle non ha mai capito nemmeno una parola di quello che cantavamo”

4)

E così niente avanguardia nel terzo album dei Velvet Underground…

E mica fa niente. Che io son di quelli che l’avanguardia ne basta un pochino ogni tanto. Stridori di viole elettriche, tam tam da jungla urbana, feedback, sibili da officina, occhiali da saldatore: tutta roba che, come dicono i giovani, mi piace un botto, ma di cui non faccio fatica a far senza.

Quindi, se il problema fosse solo l’avanguardia, l’assenza di John Cale da questo album non importerebbe più di tanto.

I Velvet, però, non erano solo caos assoluto o magrissimo e deturpato rock’n’roll.

I Velvet erano anche fioco e sinistro bagliore, dolcezza acuminata, eterna fragilità dell’essere e lo erano, soprattutto, non nei brani monumento, ma nelle ballate, nelle canzoncine.

L’autore di quelle ballate e di quelle canzoncine, oltre che di gran parte del materiale del gruppo, era, come sappiamo, Lou Reed, ovvero il più grande songwriter della seconda metà dei sessanta.

Però, senza Cale a orchestrare il suono, niente più madrigali della paranoia, niente più “Sunday Morning”, “I’ll be your mirror” “Venus in furs” “All tomorrow parties”…e, ovviamente, niente più caos. Se non appena, appena…

5)

Da piccoli eravamo davvero malati di musica.

Io ero Lou, Orsetto era Jim, Marco era Iggy e il maestro Urbani era Bowie.

Oppure, per essere più esatti, io ero Lou, ma anche Jim, e Iggy e Bowie e la stessa cosa valeva per gli altri.

Che un gruppo di ragazzini venerasse gente come Jim, Iggy, Bowie, beh, insomma, niente di strano...eran tutti piuttosto fighi e scintillanti…Lou invece…

Oh Lou non era figo per niente e fighi non erano nemmeno i suoi pards (Cale e Morrison) per non dire di quella strana batterista che sembrava un uomo. La fighezza era semmai di alcuni personaggi di contorno: il ballerino che schioccava la frusta, la valchiria di passaggio...

La musica poi, eccezion fatta per alcune ballate, era come esplosiva e compressa...sporca, ma non la calda sporcizia blues...sporca e fredda... un rock metallurgico e magrissimo su cui l’avanguardia aveva impresso una sorta di agghiacciante estetica del rumore e della dissonanza...qualcosa che, anche al massimo della violenza espressiva, rimaneva come distante, come se i suoi stessi elementi selvaggi fossero al servizio dell’alienazione o, per meglio dire, della sua messa in scena.

Era, ci insegnavano i guru di allora, la colonna sonora della realtà, anche se magari non la nostra...era l’opposto dell’estetica sixties...era l’ennesimo paradigma del realismo in arte, quel realismo (che sin da Euripide vs Sofocle) rappresenta l’uomo com’è e non come vorrebbe (o dovrebbe) essere.

Come era possibile che dei ragazzini, che giocavano al campetto (e il cui massimo riferimento culturale era il conte Oliver di Alan Ford,) si innamorassero di questa musica? Noi non abitavamo a New York, non facevamo uso di droghe (non ancora almeno) ed eravamo, in fondo, oltre che piccoli, piccoli, anche bravini, bravini…

Non lo so...personalmente ricordo la prima volta che ascoltai l’assolo (non di chitarra, che quella, dai, non poteva essere una chitarra, non quella specie di martello pneumatico) in “I heard call my name”…ecco, non era una roba tipo il rock ti da la scossa...era di più...ma non avevo parole allora e non ne ho adesso...

Qui però si parla del terzo album e il terzo album è un’altra cosa…nel terzo album il martello pneumatico non c’è,

6)

“Un, due, tre, se chiudi la porta la notte potrebbe durare per sempre”, ovvero “Afterhours”

Tra il folk, il cabaret e la filastrocca...il tutto con vocina.

Sembra quasi una “I’ll be your mirror” da giardino d’infanzia, anche se solo apparentemente. Con una specie di innocenza non esibita, quasi stupita di se stessa, a cantare le illusioni della notte.

“Lasciando fuori la luce del sole, dicendo addio al mai”.

Ah, chiudere il disco con l’inaspettato canto della ragazza elfo si rivela essere un assoluto colpo di genio. La perdizione è divenuta innocenza e forse non è mai stata altro, solo che prima magari non era così chiaro.

Le illusioni della notte...appropriatissimo sigillo per un disco che è quasi un concept che parte dalla confusione (What goes on) e arriva a una liberazione che però è solo illusoria (I’m set free)…

“I’m set free to find a new illusion”...il cerchio si chiude…

7)

Un disco raccolto, intimo...malinconico…notturno…una specie dì folk da camera, con echi leggerissimi e profondi.

E suoni che, pur assonnati e soffusi, rimangono a lungo nell’aria...e vibrano...appena appena, ma vibrano...accompagnano dolcemente la voce di Lou, mai così vivida e fresca come in questo album e, quando la voce non c’è, l’effetto è quello di quando ci si avvicina pian piano a una fonte di luce,

“Pale blue Eyes” “Jesus” “I’m set free” “Candy says” (cantata da Doug Youle) sono canzoni che parlano di illusione, di difficoltà ad accettarsi, di quando non si può fare altro che chiedere aiuto. Stanno nell’orbita del disco banana, ma non hanno nulla di quella irripetibile e sinistra magia. Eppure, se anche qualcosa si è perso per strada, quel che è rimasto è più sufficiente a far gridare al miracolo.

Ma il disco non è solo questo e qualche volta Lou si sveglia dal sonno.

Urla la propria confusione, o ci informa che sta ricominciando a vedere la luce. Ecco allora il quasi soul psichedelico di “What goes on” e il frizzantissimo gospel rock di “I’m beginning to see the light”.

Oppure ci dice, in un brano tutto spigliatezza folk, che Billy Name sostiene che bene e male son solo vecchie parole; o ci racconta una storia di seduzione col boogie blues sotterraneo di “Some kinda love”.

8)

Lou Reed, come una sorta di cronista, aveva affollato i primi album di impauriti e disperati fantasmi, narrando, inoltre, in modo estremamente realistico, tutta una serie di storie di strada.

In questo disco invece si concentra maggiormente su se stesso e quel che vien fuori è una specie di diario intimo dove luce e ombra si alternano per tutto il tempo e, a volte, persino nella stessa canzone.

I testi, più semplici rispetto al passato, scivolano via lisci verso alcune frasi chiave che ne coagulano il senso con una forza pari a quella della musica...e, esattamente come quella musica, vibrano nell’ombra.

Le frasi chiave...

Quel “come ci si sente ad essere amati?” che arriva alla fine di “I’m beginning to see the light”, quel “sono libero di trovare una nuova illusione” di “I’m set free”, e, soprattutto, quel “Che cosa pensi che vedrei se potessi allontanarmi da me?” di “Candy says”.

Anche se “Candy says” è una delle poche canzoni che non parla di Lou. Parla di Candy Darling, un personaggio che ritornerà nella celeberrima “Walk on the wild side”.

9)

Rimane da dire di “The murder mystery”, ovvero quel pochino pochissimo di avanguardia presente nel disco.

Immaginate una sorta di dissonantissimo e folle ultracabaret, che questa è l’unica definizione che mi viene in mente, e quatttro voci che alternandosi a due a due recitano a velocità supersonica (o canticchiano filastroccose) quattro diversi testi che nulla hanno a che fare l’un con l’altro.

Ovviamente non si capisce nulla. Ma, “non succede anche a voi nella vostra testa?” diceva all’epoca il buon Lou a mo’ di spiegazione.

Nella mia si...e nella vostra?

10)

Perchè Lou cacciò John? E chi se lo ricorda? L’avrò letto centomila volte, ma, giuro, non me lo ricordo…e, in fondo, non mi importa..

Alla fine del secondo album “White light, white heat”, c’è un brano, “Sister Ray”, che è davvero “l’equivalente occidentale della danza cosmica di Shiva suonata come se Babilonia prendesse fuoco”. Nessun gruppo rock è mai andato oltre, nessuno…E quella roba era Cale allo stato puro…

Sterling Morrison si incazzò da morire, anzi credo che per tutta la vita non sia mai riuscito a mandarla giù.

Un giorno richiesto di un parere su “Pale blue eyes” disse a Lou “se io scrivessi una canzone così, non ti chiederei mai di eseguirla”….

Solo che “Pale blue eyes” è una meraviglia…come tutto l’album…

Che gli vuoi mai dire a Lou Reed allora?

Trallallà...

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