Tin Machine, ossia la "macchina di stagno".
Ma tin, se associato ad altri vocaboli, assume significati particolari: per esempio un "tin god" è un pallone gonfiato, uno che si crede d'essere un Dio.
Chissà quale fu il motivo che portò alla scelta di questo nome curioso. Ipotizziamolo facendo un passetto all'indietro. Era il 1988, Bowie era il Dio del Pop, i suoi dischi (pur se generalmente bruttini, eccezion fatta per Let's Dance) avevano venduto abbastanza da arricchirlo sufficientemente per non doversi più preoccupare della pensione.
Grazie al cielo il Duca si sentiva stanco di recitare sempre e solo il ruolo dell'icona della pop music, ruolo che tutto sommato non sentiva assolutamente come appartenente. Il suo nobile animo d'artista era infiacchito dallo scrivere canzoni ad uso e consumo del pubblico che affollava i suoi concerti. Non creava più, ma generava automaticamente hit da chart. Poche, pochissime cose buone, qualche collaborazione degna di nota, qualche apparizione cinematografica e, come spesso accade nel mainstream, tanti soldini.
Poi l'incontro con un chitarrista molto istintivo, molto, molto rock, un certo Reeves Gabrels, che accompagnerà Bowie sino ad oggi. Il "pallone gonfiato" aveva bisogno di qualcuno che gli facesse un bel buco sul fianco per sgonfiarlo bruscamente (ricordo che David al primo live con i Tin Machine appena salito sul palco fece proprio finta di scoprire un buco sul fianco e, simultando un rapido sgonfiamento, fece come per accasciarsi per poi rialzarsi sorridente) e la chitarra di Reeves trapasserà il cuore del Bowie con un paio di riff molto hard.
Da lì al primo disco della band (maggio 1989) il passo sarà breve. Bastò arruolare una sezione ritmica di sicuro affidamento, i fratelli Tony e Hunt Sales, conosciuti dieci anni prima dal Duca mentre aiutava l'amico Iggy Pop ad incidere "Lust For Life", e mettersi a registrare.
Le canzoni si riversavano nella sala prove con impeto, fluenti e composte con estrema facilità. Il Bowie, assecondato da Gabrels, aveva ritrovato la vena artistica smarrita nelle atmosfere terse e leggere di Let's Dance, Tonight e Never Let Me Down. Il disco avrà un tiepido successo, a tutt'oggi all’incirca un milione di copie vendute.
Un'opera abbastanza omogenea con un sound sufficientemente imbrattato da ricordare le vere situazioni da rock band. I testi sono curati, l'omaggio al rock passa anche attraverso la celeberrima "Working Class Hero" di Lennon, suonata con discreta crudeltà.
Purtroppo, al di là di un paio di passaggi e di riff da antologia (l'intro di Heaven's in Here, Crack City, qualcosa di Video Crime e di Baby Can Dance), il disco in sé mi lascia abbastanza indifferente. Non che sia disarmonico, solo che non presenta nulla di rivoluzionario, nulla di innovativo, è un inaspettato momento di auto-rigenerazione, realizzato da un artista impegnato nel ritrovamento di se stesso, tramite un sentito ma nudo omaggio al sound delle rock band.
Già, delle "rock band", e non del rock singer ("Non voglio più essere David Bowie, voglio diventare solo il cantante dei Tin Machine" disse). A "fortiori" il Duca, con la barba e capelli un poco meno curati, non volle nemmeno che la sua immagine fosse celebrata in copertina. Vi fu ugualmente piazzata con chiari intenti commerciali, ma questa è un'altra storia.
La band inciderà anche il seguito (Tin Machine II) ed un live a ricordo del tour mondiale che intrapresero. Ma anche questa è un'altra storia. Se ve lo prestassero potreste soddisfate la curiosità di ascoltare un Bowie diverso, ma non state ad ammattire per reperirlo (anche se è abbastanza facile trovarlo, giace sicuramente sepolto da 10 cm di polvere negli scaffali del vostro negozio di dischi preferito), ci sono cose migliori da fare nella vita.
Come, ad esempio, ascoltarsi i dischi in cui Bowie trasmigra dalla concreta figura di musicista nella di lui più consona e incorporea raffigurazione come "stato mentale"...