Autodistruggersi nel modo più estremo possibile in nome dell'arte per vincere la morte in vita che ti è stata inflitta; questa fu ovviamente la scelta che fece il giovane Townes Van Zandt, quando riuscì a riassestarsi (per quel pò che ci si può riassestare) da un'esperienza atrocissima come l'insulinoterapia, subita a 19-20 anni (dopo una prima fortissima crisi depressiva-alcolica e dopo un primo tentativo suicidario che vide - secondo la leggenda - il giovane Townes, strafatto, lanciarsi, di spalle e abbracciato a se stesso, dal terzo piano di un edificio) a causa dell'insensibilità dei suoi due genitori, i quali volevano cucirgli addosso una vita da "uomo d'affari" (i van Zandt, d'origini olandesi, per generazioni avevano plasmato le fortune di Forth Worth, dove egli nacque nel 1944, a "colpi di affari"), ignorando indegnamente la spiccatissima inclinazione del ragazzo verso la musica e la poesia. Fatta questa scelta da cantautore girovago, perennemente al verde e perennemente impegnato al di fuori dal palcoscenico ad autodistruggersi con tutti i vizi possibili (alcol di tutti i tipi, droghe di tutti i tipi, cibi di tutti i tipi - persino cibi di tutti i tipi per i cani! - , giochi d'azzardo di tutti i tipi, giochi con le armi di tutti i tipi, donne di tutti i tipi, dimore di tutti i tipi - negli anni di "silenzio discografico" tra "The Late Great Townes Van Zandt" e "Flyin' Shoes" visse in una casa di legno con il tetto in lamiera in un luogo sperduto del Tennessee; e proprio quella baracca è il luogo dove Townes ci canta e ci suona nel celeberrimo documentario "Heartworn Highways" due canzoni... e che canzoni, per Giove!) quale fu la prima canzone - che si dice - che scrisse? "Waiting Around to Die"! Manifesto dannatamente programmatico della scelta di vita intrapresa, dichiarazione d'amore senza alcun tipo di filtro verso la morte nella morte, perchè è la morte in vita la vera catastrofe da odiare e dalla quale non si può fuggire in alcun modo. Il fingerpickin' di Townes alla chitarra acustica è un prodigio, in quanto sembra essere la cosa più cristallina proveniente da un mondo fatto di sole cose cristalline; così come la sua voce sembra essere la cosa più tremante sull'orlo del pianto proveniente da un mondo fatto di sole cose tremanti sull'orlo del pianto; così come quell'armonica blues, in secondo piano, sembra essere la cosa più sanguinante proveniente da un mondo fatto di sole cose sanguinanti. Come vuoi definirla una canzone del genere, se non con l'inflazionata, trita e ritrita (ma non qui, non in questo caso) definizione di capolavoro assoluto?

Ovviamente, sopra, mi riferivo alla versione di "Waiting Around to Die" contenuta, con il migliore degli arrangiamenti possibili, in "Townes Van Zandt", terza fatica discografica del "loner" di Forth Worth, risalente al 1969 e che vado a recensire, dunque, a 53 anni di distanza dalla sua uscita. La canzone di apertura, però, è "For the Sake of the Song", incentrata su una situazione che la generazione "internetica" e "socialnetworketica" a cui appartengo (mio malgrado!) chiamerebbe di "friendzone". Lo stupore diventa grandemente raggelante - per quel che mi riguarda, per me che non ho mai studiato musica - quando in seguito agli ultimi tre versi ("Maybe she has just to sing for the sake of the Song/ Who do i think that i am to decide that she's wrong/But maybe she has just to sing for the sake of the Song...) il brano sfuma impalpabilmente e arrivo a rendermi conto di aver scandagliato a occhi aperti un abisso senza fondo scritto in tonalità maggiore e non minore. Della stessa veste è fatta "Don't Take it too Bad", anch'essa sul tema della "friendzone", altra voragine senza possibilità di risalita in maggiore che ti spacca e ti consola in contemporanea. E questa è la stessa fottutament*, straziantemente dolce sensazione che provo ancora al termine della delicatissima coda strumentale che segue l'ultima strofa di un altro immane capolavoro, "(Quicksilver Daydreams of) Maria". Non conosco personalmente nessuna canzone dove una visione nella visione di un'epifania d'amore sia porta in maniera così potentemente vivida. Townes immagina - nello scriverla - di vedere una vecchia donna che ride e che canta, mentre fa le pulizie e, con un ulteriore scatto d'immaginazione, pensa a quando essa era più giovane e più bella; ed è di quest'ultima di cui si innamora perdutamente, è il suo volto che fa "svanire presto il diamante quando vi ci si abbina" ed è "la sua pelle marrone che fa sembrare i suoi capelli una dolce cascata di pioggia dorata che scende dalle montagne fino alle profondità senza fondo dei suoi occhi". Ma la combinazione di Tempo e Realtà annienta in fretta la visione nella visione e l'artista/poeta non può che sentirsi al suo sfumare sopraffatto come un "bambino solitario che cerca disperatamente un luogo dove appartenere". Che dire? Che dire... niente, ci si resta solo di sasso, ecco...

... una teoria avanzata da un fan sotto i commenti di una canzone di Townes su Youtube (appartengo, mio malgrado, alla generazione "internetica" di cui sopra e, quindi, con malcelato pudore verso le generazioni più "vetuste", massicciamente rappresentate in questo consesso virtuale, ammetto candidamente che la musica prima la ascolto su Internet e poi, forse e se ho del denaro "liberamente spendibile", la compro; seguendo, dunque, un processo di ascolto e assimilazione della musica diametralmente contrapposto a loro e forse - detto con disarmante sincerità nei confronti di me medesimo- più povero) è che ci sia un collegamento tra tre canzoni; queste sono: "I'll Be Here in the Morning", "Second Lover's Song" (l'unica non contenuta in questo disco, ma nel precedente "Our Mother the Mountain", anch'esso del 1969), "None but the Rain". Qual'è il nesso cui ci si riferisce? Una medesima ragazza che il cantautore avrebbe incontrato dopo un concerto notturno in un fumoso club texano e con la quale avrebbe fatto l'amore. "I ll'Be Here in the Morning" aderisce così, al momento "ottimistico" della chiusura degli occhi verso lo scivolamento nel più puro sonno dopo la più dolce delle esperienze possibili. "Second Lover's Song" al momento del risveglio, causato da lei, che sussurra all'orecchio di lui che non è l'unico ad amarla. "None but the Rain" al momento dell'addio senza parole e senza sguardi verso un indefinito, lontano orizzonte, armati contro un dolore insormontabile solo con la chitarra, la voce e le parole che compongono questa medesima canzone. L'attacco iniziale di quest'ultima, affidata a chitarra acustica e flauto, poi, è una fregatura maxima. Si, certo la canzone è scritta, rispetto ad altre del disco (come dicevo sopra) in tonalità minore e non maggiore; ma quel maledetto incipit strumentale dà all'ascoltatore l'illusione di essere pervenuto a una fiaba d'amore triste, ma fiaba d'amore e... invece ci si para davanti, a partire dal momento in cui Townes canta quel testo, con quella voce straziata che regge eroicamente le lacrime, una fiaba d'amore abissale che ha divorato se stessa medesima; e alla fine è l'ascoltatore a non essere così eroico e a piangere (sempre se quest'ultimo ha un cuore fatto di sentimenti e non di roccia impermeabile, beninteso). E, riavvolgendo il nastro di questa possibile teoria, dunque viene spontaneo constatare che anche "I'll Be Here in the Morning" ci appare implacabilmente come una canzone meno serena e ottimistica di quanto possa sembrare e suonare.

Altra canzone che non andrebbe chiamata canzone, ma prodigio è, ovviamente, "Lungs". Anche per il solo fatto che non si sa se la chitarra acustica faccia da strumento melodico o ritmico e se il testo sia altamente personale o altamente impersonale. La sensazione di essere sprofondati con dolcissimo strazio in un abisso è la medesima che ho raccontato per tutto l'arco della recensione. E quanto amore rivolgo a "Columbine" che non è il più granitico (forse anche perchè questa canzone è di una levità totalmente contrapposta alla durezza del granito medesimo) dei capolavori del suo canzoniere (canzoniere? Mmm... si, canzoniere!), ma è di una bellezza ineffabile e inesprimibile nel suo insieme di canto, testo e arrangiamento; a sciogliere ogni tensione, ogni paura, ogni negatività, quella bellezza. La voce resta sempre la cosa più tremante sull'orlo del pianto di quel mondo (il mondo di Townes, per capirci ulteriormente), ma stavolta non se ne ha quasi contezza. Il fingerpickin' alla chitarra acustica sgorga sin dalla prima stilla di nota come il più puro dei ruscelli sorgivi e, progressivamente, tutti gli altri strumenti, ritmici e melodici che siano, non possono che aggregarsi a essa, in atto di corteggiamento, dentro una danza di pura estasi. L'epifania che, nella visione immaginata della canzone, prova Townes, mentre assiste nascosto chissà dove a una donna, di cui si innamora all'istante, che su un prato di aquilegie gioca, in un delirio d'amore (verso Townes medesimo?), a strapparle i petali dal gambo e a farle volare e danzare. Anche qui che dire, che dire... le emozioni più intense non si spiegano, semplicemente si provano sul momento e, in definitiva, si impacchettano nel più recondito anfratto del cuore, per rivangarle di tanto in tanto a lenire il più inspiegabile dei dolori...

... e il mistero su come "Farethewell Miss Carousel", serenata country dallo spontaneissimo e classicissimo andamento innodico, non sia riuscita a dare il successo a questo ineguagliabile cantautore che lo avrebbe infinitamente meritato (e che mai ha ottenuto forse anche perchè ha sempre fatto di tutto per respingerlo). A denti stretti, completando un track by track che ho cercato di esporre nella maniera più creativa e meno pedissequa possibile, mi sorprendo nel dire che "Colorado Girl" sia la canzone più "trascurabile" e che tu, fratello spirituale che fai a nome di Townes Van Zandt, nell'intraprendere la scelta tanto estremamente dolorosa quanto estremamente giusta di autodistruggerti in nome dell'arte per sfuggire alla morte in vita che ti venne inflitta con quello schifo di insulinoterapia, hai con in pugno una manciata di canzoni, di estasi e tormento, di dichiarazione d'amore verso la morte nella morte e verso la visione nella visione, prevalso non solo ai danni di quella morte in vita, ma anche sulla morte nella morte.

Le tue canzoni sono restate, restano e resteranno. Farethewell, my love, goodbye...

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