Quando “Psalm 9”, debut album per la band di Chicago, fece la sua comparsa nei negozi di dischi nel lontano 1984, i tizi della Metal Blade ci appiccicarono sopra una bella etichetta con scritto “ White Metal” (senza, peraltro, che il gruppo ne fosse particolarmente entusiasta…). Ci tenevano parecchio, evidentemente, che si sapesse che in questo disco Satana è bello, ma Gesù un po’ di più. Che Satana è forte, ma Gesù un po’ di più.

Peccato che il Dio dei Trouble non sia quello compassionevole e misericordioso invocato da ogni studente che si rispetti la sera prima dell’ interrogazione, ma quello “giusto”, spietato e vendicativo che "schiaccerà il capo dei suoi nemici, la testa chiomata di chi cammina nel suo peccato” (Salmo 68, 21) E, soprattutto, peccato che “Psalm 9” sia un disco di doom funereo, pervaso da una plumbea teatralità, inquieto e dinamico, ma monumentale ed opprimente, malvagio e sulfureo nel sound. Un’Idra nera con tante teste quanti possono essere gli elementi che si aggrovigliano per costituirne l’ossatura e le membra. I Sabbath, in primo luogo, il riffing e le accordature catacombali del gran visir Iommi (principale e inevitabile fonte di ispirazione per i due chitarristi Bruce Franklin e Rick Wartell), a cui però vanno aggiunte distorsioni piene, massicce, prettamente heavy, pressoché inevitabile conseguenza dell’influenza dei tempi e dei luoghi in cui il disco ha visto la luce, oltre che, è bene dirlo, di una produzione più che dignitosa.

In secondo luogo, la prestazione vocale del superbo Eric Wagner, a sua volta creatura mutevole e multiforme, in cui sembrano essersi fusi nell’ordine: 1)Tim Baker dei Cirith Ungol (la somiglianza è impressionante…) 2) Roberto Halford 3) Ozzy e 4) Roberto Plant. Un cantato talora isterico e paranoico, ma soprattutto sofferto, che va a braccetto con la costante drammaticità delle composizioni e dei testi, quasi posseduto, quasi compiaciuto nel preannunciare l’ineluttabilità del giudizio divino, capace persino di rendere grande quello che altrimenti sarebbe stato forse l’episodio più “tradizionale” del disco, perlomeno dal punto di vista della velocità del riffing: la quasi Priest-oriented “ Assassin”. Ogni brano diviene così un eccellente esempio di classico doom anni ’80, potente e mai banale, perché esaltato e arricchito da una fortissima componente epica, sicuramente debitrice delle tonalità crepuscolari e oscure dei “moorcockiani” Cirith Ungol: a partire dalla serratissima ed eclettica opener “The Tempter” (stupefacente alternarsi di accelerazioni, citazioni sabbathiane, voci filtrate e urla), passando per la strumentale “ Endtime” , fino a quello che, a mio avviso, rappresenta il vero capolavoro doom del disco, “Victim Of The Insane” . Marcia funebre per l’umanità, spietata nel proprio incedere. Sdegnosa condanna all’egoismo e mortificante grido di aiuto di chi è rimasto solo: “I’m so tired of hearing that I’m wrong, Everyone laughs at me… why me?!?” implora Wagner nel ritornello, prima che l’assolo arrivi a farci riprendere fiato…

Su tutto, poi, come anticipato, l’aurea opprimente di una religiosità invasiva, apocalittica (“Put them in fear O Lord, that the nations may know. Let them realize they are just men, just men” - "Psalm 9" / "O Lucifer, with all they followers of sin you shall die in flames of the fire” - "The Fall Of Lucifer” ), che non si limita ad ispirare – in pratica intasandole – le liriche, ma che sembra esigere un proprio tributo di cieca devozione in ogni aspetto delle composizioni e, in particolare, nella loro interpretazione (“We believe in dying for things that God will give” - "Revelation"). Una religiosità che, sebbene non raggiunga i livelli per cui diverranno famose altre band (su tutte gli Stryper, quelli che lanciavano Bibbie sul pubblico…), è in grado di indurre nell’ascoltatore una sorta di tensione latente permanente … affascinante, ma, a tratti, quasi inquietante.

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