Praterie, spianate desertiche attraversate da qualche strada arroventata e polverosa... la voglia di percorrerle a tutta velocità, senza pensieri o rimorsi per ciò che è stato o timori per ciò che sarà: questo è l'immaginario suggeritomi dall'ascolto dell'omonimo album dei voivod datato 2003. E pensare che i boschi e la vegetazione fresca e rigogliosa caratterizzanti il Quebec, luogo di provenienza di questo storico e controverso gruppo, sono quantomeno distanti, sia concettualmente che geograficamente, da tutto ciò che è sabbia e polvere. Ma si sa, a fare grande la musica è anche la sua capacità di astrarsi dai luoghi e dai tempi.

 Se nella loro parte di carriera più ispirata e universalmente riconosciuta come la migliore i quattro canadesi avevano puntato gli occhi e le menti al cielo e a tutto ciò che di etereo e misterioso questo contenesse (si ascolti la cover di "Astronomy Domine" dei Pink Floyd), qui i Voivod cadono come meteoriti arroventate sul pianeta terra, lasciandosi alle spalle un solco profondo fatto di suoni diretti e pastosi, che vanno a creare cavalcate dall'andamento orgoglioso come "Real Again?" o la conclusiva "We Carry On", ma anche le atmosfere più dilatate e sognanti di "The Multiverse" e "I Don't Wanna Wake Up".

 Il ritorno dietro al microfono di Denis Bélanger si fa sentire eccome: la sua voce è sì per lo più roca, arrogante e strafottente ("Les Cigares Volants" ad esempio), ma sa esser anche sofferente e suadente come in "Blame Us"; al basso troviamo per la prima volta Jason Newsted (qui a nome Jasonic) e devo dire che trovo il suo inserimento nel gruppo riuscito, molto più che in altre sue esperienze passate che trovo qui inutile citare.

 A regnare sovrana per tutta l'ora di musica è una forte attitudine hard-rock (a tratti quasi stoner), speziata da sporadiche, ma ponderate reminescenze punk, come a voler riallacciarsi con la dimensione decisamente terrena e sporca che contraddistingueva i loro primi lavori; va detto che le sonorità metal proprie della band non sono state completamente abbandonate e pervadono comunque l'intero lavoro facendosi sentire in passaggi più tirati o in canzoni come "Rebel Robot".

Sicuramente non è l'album più rappresentativo di una carriera ventennale all'insegna dell'eterogeneità e della continua evoluzione musicale, ma ci si trova senza dubbio di fronte ad un lavoro intriso di tanta classe e mestiere da gustare più e più volte nelle varie sfumature che sa offrire.

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