“New York, New York…”

Chissà cosa avrà pensato il toscano Giovanni da Verrazzano quando, nel 1524, attraccò nella baia della futura New York, precisamente nel canale fra Staten Island e Long Island. Forse un “Maremma qualcosa” gli sarà scappato, così tanto per. Chissà se avrebbe mai immaginato che quella baia alla foce dell’Hudson, abitata da indigeni Lenape, sarebbe diventata uno dei luoghi più famosi al mondo, almeno negli ultimi 100 anni.

Luogo tanto fisico, quanto immaginario. Molti ci sono passati, molti ci vivono, ma ancor di più ne parlano come se fosse casa loro. Anche per questo dovrebbe essere strano essere un newyorchese 100%. Vivi in una città perennemente al centro dell’attenzione mondiale, talmente esposta che se esci in mutande dal terrazzo a Brooklyn, il giorno dopo ti ritrovi sul Time in un servizio sul degrado che avanza. Però, a bene vedere un paio di lati positivi (in verità i lati sono talmente tanti che non basterebbe questa recensione, per cui sorvolo) ci sono, soprattutto se ti piace la musica.

Puoi tipo suonare quello che vuoi, e qualcuno ti cagherà. Puoi andare a berti una birra al Cake Shop a Ludlow Street, e beccarti Jay Reatard, prima che decida di tirare le cuoia. E può pure capitare di incontrare Kid Millions degli Oneida, mentre vai a comprare il giornale e chiedergli di suonare la batteria nel tuo prossimo disco.

Non so se sia andata così, ma fatto sta che il robobatterista suddetto si ritrova a schivare folate cosmiche hawkwindiane nell’ultima fatica dei concittadini White Hills (venuti alla micro ribalta nel 2007 con l’ottimo “Heads On Fire”). Navigatori del fiume carsico della psichedelia heavy di inizio millennio, i White Hills mettono finalmente a fuoco idee e soluzioni dei precedenti dischi, forgiando un sound monolitico e al contempo rarefatto, coniugando passione per la reiterazione mantrica dei riff, fra Loop e Hawkwind (“Three Quarters”, “Dead”), visioni mistico-cosmiche di scuola Tangerine Dream (“Glacial”), rarefatti blues lasciati a galleggiare nello spazio che intercorre fra Ash Ra Tempel e Guru Guru (“Counting Sevens”) fino a centrifugare quasi perfettamente i suddetti ingredienti nelle lunghe “Let The Right One In” e “Polvere di Stelle”.

Sono aperte le scommesse sui prossimi incroci newyorchesi impossibili, propongo Vampire Weekend e Kiss. Nel mentre esco in giardino e mollo una scoreggia, tanto al massimo mi sente solo la vicina.

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