Se anche si concludesse dopo i venti minuti di “Sëfir” (il primo brano dell’album) l’omonimo debutto di questa formazione francese, recentemente pubblicato dall’attivissima Cuneiform, meriterebbe di essere segnalato.
Siccome però lo spettacolo continua per circa altri 34 minuti offrendoci una delle produzioni più interessanti, meno scontate e decifrabili ascoltate di recente, la segnalazione è d’obbligo.
A chi segnalare questo disco?
A chi ha amato l’attitudine di Henry Cow, Magma, ed anche certi King Crimson e scava nei meandri degli anni ’70 in cerca di declinazioni meno note, più laterali e ibride del cosiddetto “progressive”.
A coloro che seguono le evoluzioni di una ricerca che ha assorbito le lezioni disseminate nel tempo da decine di progetti di “art” o “avant” rock, coniugandole con una rigorosità creativa non lontana dai recenti approdi di certo nuovo jazz.
E a chi, come me, in un disco si augura, a volte, di incontrare un universo sonoro originale, una prospettiva, magari non sempre immediatamente assimilabile, non sempre vicina ai propri ascolti abituali ma capace di attingere a codici e suggestioni diverse per esprimersi in un personale contesto creativo.
A tutti costoro credo non dispiacerà mettersi all’ascolto di “Zaar”, lasciandosi incantare dalla quantità di variazioni ed invenzioni che percorrono le due lunghe suites (l’iniziale “Sëfir” appunto, e “Omk”, nella seconda parte) e gli altri sei brani (“Scherzaaah” è di fatto una brevissima introduzione al successivo “Scherzo #C”) presenti nel disco.
Quadri ricchissimi di cangianti costruzioni ed incastri, dinamicissimi, con aperture, accelerazioni e stasi imprevedibili, con un dispiego di repentine variazioni di tempi e nessuna pesante ridondanza tipica di chi stabilisce tra i propri obiettivi lo sfoggio della tecnica.
Ma di tecnica, qui, ce n’è in abbondanza: sono subito rimasto impressionato da quella del batterista, Michael Hazera, uno dei leaders della formazione: nitida, chirurgica, rapida, irrequieta, efficiente. Lungi da assolvere esclusivi compiti di supporto ritmico, spesso la batteria diviene centro focale, forza centrifuga, dispensatrice di timbri e figure soliste che consentono ad un solo brano di assumere, nel volgere di pochi secondi, fisionomie impreviste.
Questo accade con maggiore frequenza, naturalmente, nei due brani lunghi già citati.
Il primo percorso da un flusso che va da un versante più evocativo, speziato di accenti folk, ad una parte centrale che si apre su uno scenario di estrema rarefazione, dal quale si snoda una lunga sonda di suono “space”, che si condensa poi in un finale quasi free, prima di stemperarsi nei minuti finali.
“Omk” è scura, dilatata, percorsa all’inizio da un suono basso e profondo sopra il quale si incrociano nervosi interventi percussivi e frammenti di linee della chitarra: come in attesa, una tensione che sentiamo crescere e che sfocia prima di giungere a metà del pezzo. Stratificata, densa, si slabbra nel cuore del brano, rilasciando nuovamente una materia torbida e ombrosa, che verrà ancora percorsa da furori ritmici e chitarristici, come da accenti quasi “medievali”. E poi quiete apparente e nuovi lampi improvvisi, sino all’ossessivo incedere della coda, troncato di netto da un colpo di batteria.
Anche nei brani più brevi, anche quando è più rarefatto e meditativo, il clima è sempre attraversato da una linea di tensione, da una energia creativa palpabile, palpitante.
La chitarra offre una tale varietà di approcci, una tale tavolozza di sonorità, nell’uso sempre funzionalissimo degli effetti e delle ritmiche da costituire una gradevolissima fonte di sorpresa.
Se in “Sefir” l’abbiamo sentita aprire il brano elettrica, distorta e nervosa, per divenire prima evocativa, “spaziale” e poi velocissima, effettata, inanellare assoli nei frammenti più concitati del lungo pezzo, nei seguenti due minuti della deliziosa “Zolg” la ritroviamo acustica, “classica” ma imprevedibile, dinamica e vivace.
La line up, oltre ai menzionati Hazera si compone di Pairbon (basso e contrabbasso) e Cosia (ghironda).
Anche sulla ghironda occorre spendere due parole: solo in rari frangenti richiama la propria natura “folklorica”: in questo crogiuolo anche le sue tipiche sonorità divengono altro, sposandosi alla funambolica anima del progetto.
L’eccellente lavoro di Pairbon è percepibile lungo tutte le tracce, ma il suo tocco al contrabbasso affiora squisito nella rarefatta “C’è ne Pas Triste”, che precede il densissimo vortice chitarristico con il quale si apre la successiva “Tougoudougoum”. Seguita, a sua volta, da un’altra traccia sorprendente: imprevedibilmente costruita su suggerite movenze di samba, “Discasambo” è onirica e astratta, giocata sul rimbalzo di accordi della chitarra e il cesello percussivo della batteria.
Un disco non facile, ma aperto ad un ascolto aperto.
E a quel ascolto gustosissimo: al punto che ritornerete sui brani più volte, soffermandovi per apprezzare la ricchezza dei suoi dettagli, osservare più nitidamente la struttura dei suoi brani, rivedere le forme disegnate dagli episodi improvvisativi.
Ma che al primo ascolto lascerete scorrere nella sua fluente, versatile identità.
P.S. I due Hazera provengono da un altro gruppo, del quale non conosco che il nome, Sotos. Una sbirciatina alla loro produzione, dopo questo ascolto, credo valga la pena di darla.
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