Lea

Due giorni fa è morto il mio cane. Era un San Bernardo femmina.
Aveva quindici anni, molto per la sua razza.
Era il mio cane, il mio primo e, per ora, ultimo cane.
Era l’unica femmina della cucciolata ed era destinata a morte sicura poiché non “vendibile”. Il suo destino era segnato: o la prendevo io o il giorno dopo sarebbe venuto il veterinario a finire la sua breve vita, a tre mesi dalla nascita.
Ebbi molti dubbi. Pensavo a come gestire un simile molosso, a quanto avrebbe mangiato, allo spazio che avrebbe occupato, alla sua indole vista la probabile mole (e se mordeva chi l’avrebbe fermata?). Tutti questi dubbi dovevano essere risolti entro dodici ore, poi sarebbe stato troppo tardi. I miei avevano sempre avuto cani e gatti, ma questa bestia sarebbe stata affidata a me. E ciò significava alimentarla prima di tutto e poi gestirla. Ero nel secondo lustro dei miei venti anni e di conseguenza ero ancora molto sognatore ma anche molto pragmatico. Avevo finito l’università e stavo entrando nel famigerato mondo del lavoro e questa del “cagnone” era una “grana” da gestire bene: chi cazz’ me lo faceva fare? Insomma, furono dodici ore frenetiche. In quelle dodici ore feci una capatina dallo stronzone che il giorno dopo avrebbe utilizzato una bella siringa per finirla, almeno così diceva. E vidi quel batuffolo bianco a chiazze marroni, con quel musetto imbronciato. A tre mesi già bella grande.
La decisione fu presa.

Nei primi giorni Lea si nascondeva a tutti. Poi pian piano si rilassò. Si fece accarezzare.
Crebbe. Crebbe molto. Diventò un gigante. Non era facile tenerla.
Era spettacolare in gioventù; per esempio quando vedeva un gatto ed in una frazione di un secondo decideva di seguirlo con uno scatto da felino. Nella frazione di secondo successiva io dovevo velocemente spostare il mio peso all’indietro e tirare il guinzaglio per cercare di frenare quella enorme massa di muscoli e pelo da settanta chili che voleva giocare.
E succedeva che il grande animale si impennava letteralmente superandomi in altezza mentre io tendevo allo spasimo il guinzaglio con tutte le mie forze. In quei frangenti la gente si paralizzava. Si congelava anche solo quando abbagliava.
Aveva un suono potente, cupo ed incuteva davvero timore.
Ma era dolce, era buona nel senso letterale della parola.
Era stupenda ed impressionante quando, in un prato, prendeva la rincorsa da cento metri e correndo mi veniva incontro con tutta la sua mole, e vi assicuro che non si fermava.
Si buttava addosso a me e, se non venivo sbattuto a terra (in quel caso arrivava con l’intento di slinguazzare e sbavare), si rovesciava sulla schiena zampettando al cielo.
Mi seguiva a testa bassa e giocava, correva come un mammut, si tuffava in acqua e poi se la scrollava di dosso inondando tutto e tutti. Era uno spettacolo.
Poi la vita va avanti velocemente. Gli anni passano, le vicende umane e canine pure.
E ci ritroviamo più vecchi.

Ora non abbaia quasi più, è molto più magra. Il suo pelo ha perso lo smalto e la sofficità.
Non corre, anzi purtroppo le zampe posteriori non la sorreggono più.
E’ diventata sorda. Ma quando mi vede riesce ancora ad alzarsi e venirmi incontro.
“Quando mi vede” perché ora è rimasta nella casa di famiglia ed io non sono più lì.
Era circa una settimana che non la vedevo. Poi non so perché, il lunedì decido di passare nella vecchia casa.
Non vado direttamente da lei, ora mi fa pena vederla e mi faccio un giro in giardino.
Poi sento tossire ed un impercettibile gemito, mi volto e la vedo sdraiata tra le margherite che mi guarda. Respira molto male. Non tento nemmeno di alzarla. Non so che fare. Riconosco quel respiro. Respira a tratti, tossisce. Ansima. La accarezzo e la accarezzo. Solo questo posso fare.
La guardo.
Poi decido di andarmene. Ma ritorno sui miei passi per un’ultima carezza.

Mi telefonano due ore dopo dicendomi che è morta.

In un attimo non penso più a nulla se non al mio caro cane.

Corri Lea, corri.

P.s. Lo so, è un editoriale “personale”, ma l’ho scritto non per un falso pietismo o sentimentalismo verso gli animali a-la-Bau&Miao o Arca di Noè di Canale 5. L’ho scritto perché sentivo di scriverlo e lasciare due righe per Lea prima di tutto, forse anche egoisticamente per i miei sedici anni di vita volati via con lei ma, più che altro, per riflettere sul nostro rapporto con gli animali.
Diamo loro troppo spazio ed importanza? Penso a tutti i programmi tv dedicati loro ad esempio. Ho sempre ritenuto che quello spazio/tempo sarebbe speso meglio per la gente che non ce la fa a mangiare. E nel mondo, ma già in Italia, ce n’è davvero molta. Prima le persone e poi gli animali. Penso alle signore che spendono 800,00 euro di toletta per le loro cagnoline. Ma penso anche ai bastardi che tengono i loro cani in gabbie di un metro per due. E poi li prendono la domenica mattina per andare a caccia e magari pretendono pure, nell'occasione, che siano docili con loro e che corrano prestanti.
Io credo che il nostro errore più grande sia quello di umanizzare gli animali.
Essi sono animali e debbono essere trattati da animali. Certo rispettati, ma senza esagerare.
Bene, però allora perché sento questa “cosa” dopo la morte del mio cane?


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