Inglese, classe '70, voce Folk, attitudine elettro ed un complesso di inferiorità per la propria (troppo elevata) statura, passatemi il gioco di parole.
Beth Orton esordisce nei primi '90 come voce ospite di progetti elettronici tra cui Orbit  e Chemical Brothers (ricordate la leggendaria "Alive Alone" in "Exit Planet Dust"?), con il primo, in quegli anni, intraprende un sodalizio (anche affettivo) che sfocia in "SuperPinkyMandy", album del '93 pubblicato in poche copie solo in Giappone e nel '96 in "Trailer Park", che si può considerare il suo vero debutto e manifesto della "Folktronica", sound che avrebbe caratterizzato tutti i suoi lavori da li in poi, almeno fino al bellissimo "Daybreaker".

"Trailer Park" si inserisce di diritto in almeno due filoni caratterizzanti i '90 e cioè quello dell' Elettronica (Trip-Hop, Drum n'Bass ) e quello ben più classico del Cantautorato Femminile (anche se in questo disco non è autrice di tutti i pezzi), difatti se da una parte le influenze elettroniche (e visto il curriculum erano inevitabili) sono evidentissime dall' altra il Mito della Ragazza Timida con dinamiche folkeggianti, munita di chitarra nella Orton si adagia perfettamente rivelandone la vera natura.
Ma questo non deve ingannare, "Trailer Park" non  è album dicotomico ma bensì lineare e suadente e se una delle due influenze dette è posta "a servizio" dell'altra è proprio l'Elettronica che va a fare "substrato" perchè qui alla fin fine siamo di fronte ad un Album Folk, attualizzato alla Moda (brutto termine ma portate pazienza) del tempo ma sempre Folk rimane.

Già dall'iniziale "She Cries your Name" (scritta a quattro mani con Orbit) tutti questi elementi vengono chiariti, se infatti il buon William si diverte a creare un ambiente soffuso, la struggente voce della Orton (voce che è tra le mie preferite di quegli anni) e l'accompagnamento basic della chitarra fanno fiorire quella malinconia tipica del filone folk-cantautoriale battenzando un tipo di suono così particolare da far riconoscere le composizioni "Ortoniane" lontano un miglio.

Le successive "Tangent" e "Don't Need a Reason" confermano queste caratteristiche e anzi accentuano ancora di più il fatto che sposare suoni (e produzioni) tipicamente elettroniche ad elementi fortemente '70 non era poi tutto questo azzardo e nel loro piccolo apriranno la via a dei momenti di sperimentazione che negli anni successivi avrebbero avuto ampi spazi (tutto questo, in modo un pò più avanguardistico, si può paragonare a quello che in America stava facendo Beck, prima con "Mellow Gold" del '94 e "Odelay del '96). Il tutto rimanendo sempre comunque dentro ai confini se non dell' "easy listening" ("Live as you dream" e "Touch me with your love", per esempio) almeno a quelli della semplicità compositiva, lasciando perdere inutili e poco funzionali divagazioni "ambient", tipiche di certe composizioni "sintetiche" dell' epoca.

Oltre alle canzoni  già citate è da segnalare tra i momenti più interessanti la "Philspectoriana" "I Wish i never saw the Sunshine", divertissement dove Orbit sguazza nel suo ambiente naturale (o quasi) e cioè quello dei Rmx (anche se non si tratta propriamente di canzone remixata).

In conclusione un Album piacevolissimo che può essere apprezzato sia dai nostalgici (tra cui il sottoscritto) e sia da chi affronta per la prima volta le due influenze di cui si parlava all'inizio (anzi può essere considerato come un ottimo viale d'ingresso...), mai sopra le righe e soprattutto intriso di una vena malinconica (che a noi tanto piace ,alla faccia di chi chiama "piagnona" qualsiasi artista fortemente introspettiva) mai grottesca, easy ma non scontata (esagero troppo con i giochi di parole?).   

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