Kahimi Karie è un nome d'arte che non vuol dire assolutamente niente: è puro suono. Nome o cognome non ha importanza, né una vaga assonanza col nome vero della cantante rivela una qualche discendenza linguistica, e tantomeno va chiamato in causa un qualche significato delle parole: è pura suggestione. Tutto ciò che Mari Hiki voleva dichiarare scegliendosi questo nome è un'estraneità e contemporanea complicità in una serie di immagini e ricordi fonetici così che sembrasse il nome di un oriundo con discendenze così complesse da essere non ricostruibili: è pura immaginazione. Kahimi... mah, sa di giapponese, di finlandese, di africano persino, e Karie in base a come lo si legge può essere tanto francesino quanto italiano o inglese o quel che si vuole: è pura astrazione. Però è certamente il risultato di una scelta, sicuramente lei si è domandata come poteva riuscire ad evocare a priori tutte quelle sensazioni che per esempio, non so, oggi dici «Picasso!» e subito alla mente t'arriva qualcosa di insieme preciso e vago o meglio declinabile un po' a tutto, no?, ecco cerchiamo un nome che dica tutto e niente: è pura idea. E questa fanciulla delicatissima come non se ne vedevano eguali dai tempi di Chocho-san ha unito in poche lettere suono, suggestione, immaginazione, astrazione, idea: è pura musica.

Questa presenza evanescente e diafana che si esprime per vocalizzi fra il minuto ed il trattenuto e non sappiamo se è perché più di così non può o meno di così non vuole, questa immagine filtrata da un vetro che la separa dal resto del mondo inutile e superfluo, questa figura fatta di aria ha realizzato alcuni dischi di una bellezza iperuranica partendo dal pop accessibile degli esordi per arrivare al bianco assoluto degli esiti recenti, in un parallelismo con la carriera di Malevic che forse ha anche altri punti di contatto oltre alla parabola evolutiva, e vedremo se Kahimi Karie la continuerà nella stessa direzione intrapresa dal genio russo. Per ora la cantante giapponese è alla fase Quadrato bianco su fondo bianco: la privazione totale di qualunque orpello per arrivare alla significanza più pura e sublime. "It's Here" è 50 minuti e 21 secondi di musica allo stato più puro, completamente priva di una qualunque logica strutturale e retorica: Kahimi Karie si accompagna solo a due cordofoni, pianoforte e chitarra acustica, ed una grande quantità di idiofoni fra cui maracas, marimba, cabasa, wood block, bastone della pioggia, le più svariate percussioni, vari tipi di campane ed altri strumenti ancora allo scopo di ottenere solo in minima parte un suono controllato e ricercando piuttosto un rumore il meno catalogabile possibile. Nessuna strofe o ritornello, solo un flusso di... note, sì, sono note, ma ancor più sono macchiette sul pentagramma, orme di gatto passato sul foglio dopo essersi sporcato le zampe d'inchiostro, gocce di rugiada, petali di fine primavera trasportati dal vento sullo spartito, riccioli della matita temperata, ribes, disordine gentile. "It's Here" è all'estremo limite fra la più pura improvvisazione, imbracciamo la chitarra e sentiam che viene fuori, e la riflessione più profonda e lavorata, giorni a meditare su quel passaggio perché non esprime esattamente quel che si vuole. Del tutto inutile se non persino dannoso citare dei brani specifici: la coralità del lavoro è la chiave che dà un senso profondo a questo album. Perché questa musica è... no, questa musica non è perché non esiste, attraversa l'aria, ma non si è sicuri che ci sia. Eppure, è qui.

"It's Here" è il primo lavoro di Kahimi Karie dopo quattro anni di silenzio passati a dare alla luce ed allevare il suo bambino. Quattro anni in cui la cantante ha approfondito enormemente la sua sfera emotiva fino ad arrivare ad una posizione di una serenità tale da riuscire a scrivere un album così placido, fluido, silenzioso. Un album silenzioso, alla ricerca del suono prima ancora che della musica in un processo che è insieme ancestrale e di raffinatezza unica.

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