Tutto è stato già detto. Tutto è stato già scritto.

È bello, brutto, pompato, schifosamente dance, è "Donna Summer rianimata dai Daft Punk", sesso a caccia di sesso, è "la mirror ball del Danceteria che si schianta su Ground Zero", nient'altro che un ritorno al passato, nient'altro che una furba, colta antologia di citazioni: a volte velate, altre no.

Tutto vero, tutto falso. Con un solo punto fermo: è Madonna, e funziona. Ancora una volta. Definitivamente abbandonata la pista "elettrorock" di "Ray Of Lights", Louise Veronica Ciccone, insieme al fidato Stewart Price (aka "Les Rhythmes Digitales" vel "Jacques Lu Cont", forse non un genio, ma un maestro sicuramente), sceglie di far girare il tutto intorno ad un motivo semplice semplice, ma così stramaledettamente di moda: la dance anni '80.
E allora balla, canta, provoca, sculetta, cita chiunque gli passi per la testa (Abba, Prodigy, New Order), cade nell'autocelebrazione più pura (gli archi di "Let it will be" ne sono un esempio, e poi "Push", che tanto ricorda "Like a prayer"), strappa vocoder dalle mani dei Kraftwerk ("Sorry"), e non si vergogna di derubare i Daft Punk dei loro strumenti migliori (i filtri) spargendo qui e là gocce di spiritualità condita di French Touch (Air).

È un disco da ascoltare, da ballare, sempre d’un fiato per preservare l’inganno. Da sottolineare la grande fluidità nel passaggio da canzone a canzone: e sembra di ascoltare non un normale album, bensì una sorta di “mixato”, un ininterrotto continuum di “confessioni” .
Si parte a mille con “Hung up”, il primo estratto, si prosegue con i numerosi richiami retro di “Get together” , per arrivare al secondo esplosivo singolo, “Sorry”, forse il brano più energico e coinvolgente dei Dodici, e si va avanti, sempre senza soluzione di continuità: “Future Lovers” (vedi Donna Summer), “I love New York”, “Forbidden love” (vedi Kraftwerk), e poi “Jump”, che con il suo ritmo riesce a spingere “on the dancefloor” anche i più timidi e impacciati.

Chiudono il tutto “How high”, “Isaac” (la voce in coda al brano è di Yitzhak Sinwami, rabbino del London Kabbalah Centre), e lo scuro, morbido step sequencer di “Like it or not”. È sicuramente banale sottolineare il grande stile che caratterizza tutto il disco, ma lo si deve, perché prima di essere elettronico-dance-celebrativo alla nausea è pur sempre e soprattutto pop, grande pop, e se si toglie lo stile, scompare il gusto di ascoltare. E di ballare.

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