L’anno è il 1973. Il mondo sta cominciando a uscire da quella sorta di forte nostalgia beatlesiana che lo ha assalito nei primi anni ’70. Prima di adesso infatti, ogni registrazione pubblicata da un ex-fab ha ottenuto sempre e comunque un successo istantaneo. Spesso per meriti musicali, ma a volte anche per la semplice voglia di ascoltare ancora sprazzi di magia targata Beatles (vedasi a proposito le vendite di alcuni pessimi singoli di McCartney o del primo album di Ringo). La situazione pare a un punto di svolta.

Il tormentato “Living in the material world” di Harrison riceve critiche e vendite alquanto tiepide, nonostante si tratti in effetti di un buon album. Peggio ancora va al pessimo “Some time in New York City”, totalmente ignorato dalle classifiche e stroncato dagli addetti ai lavori. Lo stesso “Mind Games”, uscito una settimana prima di questo “Ringo” ha ricevuto un’accoglienza decisamente freddina. Sembrerebbe dunque che il pubblico, stuzzicato dalle nuove leve del prog e del glam, si sia stancato di vivere in un revival degli anni ’60 e stia iniziando a giudicare più obiettivamente i lavori dei Beatles solisti, senza lasciarsi trasportare dai soli nomi sulle copertine.L’impressione non potrebbe essere più sbagliata.

A prescindere dai meriti musicali del disco (di cui si andrà a parlare, ovviamente), l’enorme successo di questo album non può prescindere dall’atmosfera del “Ma quando si rimetteranno insieme?” che aleggiava allora. Ma andiamo per ordine…

La carriera solista di Ringo fino ad ora è stata altalenante. I primi due album (un’ irritante collezione di standard e un buon album di country) sono passati quasi inosservati, spingendo Ringo ad occuparsi maggiormente di cinema piuttosto che di musica. Questa sua convinzione fu scossa dal grande successo ottenuto dai suoi singoli “It don’ t come easy” e "Back off Boogaloo” (1971 e 1972 rispettivamente), infondendogli rinnovata fiducia nelle sue capacità compositive e di performer. Consapevole di non poter riempire un valido album con composizioni a sua firma, fece la cosa più logica e sensata che potesse fare. Chiedere aiuto ai suoi ex compagni di avventura. Il primo a rispondere fu George Harrison che compose per lui due pezzi e fu coautore di “Photograph”; poi fu la volta di Lennon e della sua “I’m the greatest”; infine anche McCartney donò un suo pezzo al bisognoso Ringo. Ed ecco quello di cui si stava parlando: per la prima volta da “Let it be” i quattro Beatles si ritrovavano insieme sullo stesso disco (sebbene in nessun pezzo suonassero tutti e quattro).

L’effetto revival era aumentato dalla copertina che si rifaceva chiaramente a quella di Sgt. Pepper, con Ringo in primo piano e tutti i suoi collaboratori sullo sfondo (ben riconoscibili Harrison, Lennon con Yoko, e McCartney con Linda). Le vendite stratosferiche dell’album si spiegano anche grazie a questo e grazie alla (infondata) speranza che questa rimpatriata sull’album del simpatico Ringo fungesse da prodromo alla tanto sospirata reunion. La storia ci dice che il pubblico si sbagliava. Ma quali sono i meriti di questo album giunto al numero 2 negli USA (7 in Gran Bretagna) e piazzò due hit al primo posto e un’ altra nella Top 5? L’ascoltatore può ben essere prevenuto all’ascolto di un album solista di Ringo Starr, celebre come ultima ruota del carro Beatlesiano, batterista discreto e nulla più, cantante simpatico e volenteroso ma dalle evidenti capacità vocali.

Si inizia con "I’m the greatest", il pezzo fornito da Lennon. L’inizio è davvero una sorpresa. Un boogie musicalmente piacevole, con un testo molto ironico e divertente e un meraviglioso Harrison alla chitarra. Già dal primo pezzo si può capire le linee generali del 33 giri: musica non troppo originale ma coinvolgente, divertente e suonata in un clima sinceramente divertito e divertente. Dopo la trascurabile cover di "Have you seen my baby", arriva il primo hit: "Photograph", a firma Starkey/Harrison. Un pezzo pop davvero bello, ripeto il termine “sorpresa”: era davvero difficile aspettarsi una chicca come questa, un gioiellino di composizione ed esecuzione, non a caso uno dei pezzi più richiesti negli attuali concerti di Ringo. Il pezzo di Harrison, "Sunshine life for me" scivola via saltellante ed allegro portando al secondo hit: la cover del classico rock n’ roll "You’re sixteen". Ringo si specializzerà nel rifacimento di vecchi classici, rinvigorendoli grazie agli eccezionali strumentisti di cui si è circondato (splendidi i cori di Harry Nilsson). Il canto di Ringo è sì limitato, ma impossibile non giudicarlo coinvolgente in pezzi come questi, arrangiati alla perfezione da un eccellente Richard Perry, attento a riempire lo spazio sonoro senza però eccedere alla maniera di uno Spector.

"Oh my my", altro hit, apre la seconda facciata, sulla falsariga degli altri pezzi: un po’ di prevedibilità, ma molto mestiere e soprattutto molto divertimento. Dopo un altro buon pezzo firmato da Ringo (Step Lightly) si giunge al pezzo fornito da McCartney: "Six o’ clock". Solo considerando il periodo d’oro di Macca (era sul punto di pubblicare il mitico "Band on the run") si può capire come abbia potuto regalare un simile gioiello a Ringo. Una canzone davvero bella, con un testo meno banale dello standard maccartiano, un arrangiamento semplice ed efficace e un’esecuzione perfetta da parte dei due ex compagni di band. "Devil woman" sorprende positivamente con la sua carica aggressiva. "You and me (babe)" è il simpatico commiato di Ringo, che umilmente non manca di ringraziare tutti gli ospiti e il pubblico.

Questo album non vi cambierà la vita. Né i vostri gusti musicali. Non ha sprazzi particolarmente originali e non conquista nessun nuovo territorio inesplorato. Si tratta essenzialmente di pop-rock. Ma, lasciati da parte i primi pregiudizi, è davvero difficile non lasciarsi coinvolgere da questo lp, a maggior ragione per chi ha amato i Beatles. Le canzoni sono tutte apprezzabili (alcune addirittura ottime), Ringo incredibilmente efficace e simpatico al canto, gli arrangiamenti ottimi e mai strabordanti, gli strumentisti eccezionali ma mai sopra le righe. Basterebbe già questo, ma il valore aggiunto dell’album risiede nella straordinaria atmosfera di divertimento che trasuda dal disco: ci sembra quasi di vederli, Ringo e i suoi ospiti, ridere e scherzare prima di registrare i pezzi del suo omonimo album. L’ascoltatore non può che rimanere piacevolmente invischiato. Indubbiamente l’episodio migliore della carriera di Ringo e forse, oggettivamente, l’unico da consigliare a chi mai avrebbe pensato di ascoltare un album dell’ex batterista dei Beatles.

Dategli una chance, questo album se lo merita.

P.S.: c’è un motivo in più per procurarsi “Ringo”. La ristampa su cd include 3 bonus tracks. La prima è "Down and out", b-side di “Photograph”, buon rock. Ma soprattutto è incluso il suo singolo del 1971: se la b-side "Early" 1970 è quasi commovente nel delineare la vita di Ringo senza gli altri 3 compagni, "It don’t come easy" è la migliore e più famosa canzone della sua carriera solista. Un gran bel pezzo, che avrebbe ben figurato su qualsiasi album della band, grazie anche alla solita, straordinaria prestazione di George Harrison.

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