Chiude, per ora, quella che io definisco la "quadrilogia dell'onestà".

"Amore nel pomeriggio", "Pezzi", "Calypsos" e quest'ultimo, infatti, sono dischi di un gigantesco cantautore, uno che lo stesso Faber definì "l'università", modestamente autodescrivendosi come "il liceo"...: probabilmente un "eccesso di complimento", ma senza dubbio siamo davanti a uno dei pochi grandi superstiti della miglior canzone italiana, quel cantautorato che ha saputo mischiare le suggestioni esterne (particolarmente i soliti Cohen e Dylan) con la nostra tradizione. Questi superstiti, che faccio fatica ad identificare oltre Battiato, Conte, Fossati, Guccini e lo stesso De Gregori (con una menzione in seconda linea per Vecchioni), tirano a campare più o meno bene, sfornando dischi, per il vero sempre più di rado, spesso uguali a se stessi, monumenti al proprio "io passato" con poco o nulla d'originale dentro.

Ma il criterio d'originalità, ormai, come da tempo quello di utilità, sono ontologicamente sbagliati per definire un "arte", soprattutto in campo musicale. Oggi il mercato vende alle masse musicaccia scopiazzata e senz'anima, fa credere a ragazzini totalmente privi di senso critico che giovani brufolosi eunuchi gorgheggianti siano dei geni, per farli poi scomparire dopo due mesi sostituendoli con nuovi brufolosi eunuchi gorgheggiati, ovviamente un po' più geni di quelli di prima.

Rarissime, e perdipiù sconosciute da noi, le firme davvero di pregio, soprattutto americane. Amen: guardiamo a quello che abbiamo, e pensiamoci un po' su.

In questo caso siamo alle prese con un cantautore che è stato gigantesco e che oggi mantiene vivo e vivace il proprio nome con un'attività discografico-concertistica a dir poco frenetica, soprattutto se paragonata a quella dei colleghi. È celebre per la pubblicazione di troppi "live", a mio avviso nessuno davvero inutile ma tutti con dentro qualcosa di interessante, e, oggi, per la registrazione e la pubblicazione di canzoni che si somigliano molto, scritte benissimo, in perfetto stile (e come potrebbe essere altrimenti...?), monumento vero e proprio all'onestà.

Sì, perché l'onestà di un cantautore d'oggi, sopravvissuto agli altri e a se stesso, è per forza quella di ripetersi al meglio, quella di dire ancora qualcosa. Soprattutto di volerlo e saperlo dire.

In quest'ultimo capitolo della quadrilogia De Gregori apre con la "title-track" che sembra un inedito degli anni d'oro (suoi..."Rimmel"...o di Leonard Cohen, sentite i coretti...) per poi continuare con uno "swing blues" molto dylaniato, ma sicuramente vestito di uno dei migliori testi dell'album.

Poi vi sono un paio di ballate molto "alla De Gregori", il singolo "Celebrazione", altro eccelso testo incentrato su un ambiente passato del quale il protagonista non ha alcun rimpianto o nostalgia, un esperimento reggae ("Carne umana per colazione") molti anni dopo "Dr. Dobermann", e due ballate da piano: la prima "Volavola", torna sull'amore dimostrato più volte per armonie tradizionali, da dopoguerra, da alpini...un po' da coro, insomma (pare una sorta di geniale "falso d'autore") e la conclusiva "L'infinito", decisamente splendida nel non aver proprio nulla di particolarmente originale.

C'è posto, in mezzo, per una cover, tradotta dal bravissimo e semi-sconosciuto fratello Luigi Grechi, che, nell'insieme, sembra una canzone di Francesco fatta e finita.

Il tutto per uno spazio temporale davvero meravigliosamente breve (quanto sono stucchevolmente barocchi i dischi "per forza" di 78 minuti...?). Un disco di oggi e contemporaneamente "di una volta", col sapore di un'affettuosa e delicata autobiografia, con nulla di autoincensante.

Un disco senza tempo.

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